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Lavorare in rapporti di tensione 8:
Valutazione della qualità nella mediazione culturale tra autoriflessione, capacitazione e adattamento

«Who has the right to ask whom what questions; who has the right to answer; who has the right to see what; who has the right to say what; who has the right to speak for whom?» (Smith 2011)

Al termine del testo sulle  critiche alla gestione della qualità nella mediazione culturale, è stato accennato al fatto che i criteri per la determinazione della qualità presentano necessariamente una dimensione normativa. A questo proposito citeremo nel seguito due esempi. Nel suo studio internazionale sulla qualità nella mediazione musicale e nella pedagogia concertistica, Constanze Wimmer introduce la qualità dei processi come una delle tre  dimensioni della qualità ( Wimmer 2010). In merito a tale dimensione scrive: «Essa determina la concezione artistica e pedagogica e consente approcci partecipativi per il pubblico e i partecipanti» (Wimmer 2010, p. 10). Nelle sue ulteriori considerazioni, stabilisce come indicatore per un’elevata qualità della mediazione musicale un cospicuo grado di partecipazione (per es. nel senso di un’attiva partecipazione musicale di giovani oppure della partecipazione di docenti alla fase di elaborazione di un progetto di mediazione). Si può essere d’accordo o meno con questo indicatore – fatto sta che non è ovvio né per così dire naturale, ma rimanda a finalità dell’autrice rispetto alla mediazione musicale. Nello studio, questo posizionamento è motivato, per esempio tramite l’esposizione degli effetti positivi della «partecipazione culturale» di bambini e giovani in riferimento al loro atteggiamento rispetto alla musica colta o in virtù del ruolo di precursore della Gran Bretagna nel campo della mediazione culturale, ai cui modelli si sono orientati numerosi progetti dell’Europa continentale. Dalle motivazioni risulta a sua volta evidente che i criteri di qualità si basano su un concetto di mediazione culturale con  funzione riproduttiva implicito e assunto come ovvio: si tratta soprattutto di formare, tramite la mediazione culturale, le future generazioni di pubblico (gli studi di casi discussi nella pubblicazione rimandano però anche, oltre alla partecipazione culturale, all’idea della cultura come strumento di  cambiamento delle condizioni sociali come legittimazione per la stessa mediazione culturale).

Il Deutscher Museumsbund e il Bundesverband Museumspädagogik in collaborazione con l’Österreichischer Verband der KulturvermittlerInnen im Museums- und Ausstellungswesen e Mediamus, l’Associazione svizzera delle mediatrici e dei mediatori culturali di museo, hanno pubblicato nel 2008 un opuscolo dal titolo  Qualitätskriterien für Museen: Bildungs- und Vermittlungsarbeit [Criteri di qualità per musei: lavoro educativo e di mediazione]. La pubblicazione non è solo un catalogo di raccomandazioni sulla qualità, ma delinea anche il campo professionale della mediazione culturale. Dapprima sono definiti i compiti e le competenze della mediazione nel contesto istituzionale museale. Seguono determinazioni dei contenuti, dei  gruppi mirati e dei metodi della mediazione, della qualifica del personale e delle necessarie condizioni quadro per un lavoro di mediazione di qualità. Per ciascun campo tematico è data una definizione di qualità. Tali definizioni sono di carattere generico e oscillano tra la descrizione dell’attività e la formulazione di finalità ed esigenze di qualità.

Ad esempio, riguardo al tema «metodi» si legge: «Un lavoro educativo e mediativo di qualità ricorre a una moltitudine di metodi per facilitare l’incontro con gli originali, i contenuti delle esposizioni e l’istituzione museo in generale. Attiva e promuove le opportunità di conoscenza e percezione delle visitatrici e dei visitatori e li indirizza in molteplici modi all’apprendimento autonomo con tutti i sensi». Oppure nel capitolo dedicato ai «gruppi mirati»: «Le mediatrici e i mediatori lavorano per tutti e con tutti i visitatori e le visitatrici di un museo. Questi soggetti hanno ciascuno esigenze diverse. Le collaboratrici e i collaboratori di pedagogia museale sviluppano offerte per tutti i gruppi del pubblico del museo e per nuovi, potenziali visitatori e visitatrici al fine di consentire al maggior numero possibile di persone la partecipazione all’educazione culturale nel museo.» Nello sviluppo successivo di questo capitolo verrà posto in particolare evidenza lo sforzo per  un’assenza di barriere come indicatore di qualità.

Benché nell’introduzione dell’opuscolo si sottolinei che la pubblicazione vuol essere intesa come impulso a un’ulteriore discussione su un lavoro di mediazione di qualità, in essa non avviene un posizionamento trasparente. Manca una motivazione che spieghi per quale ragione dal punto di vista delle autrici e degli autori la funzione affermativa e riproduttiva della mediazione dovrebbe informare l’intero campo professionale. Di conseguenza, nel manuale le funzioni sono normalizzate nel senso che sono introdotte come evidenti e senz’altri presupposti. Come si è argomentato tra l’altro nel testo per chi ha un po’ di tempo nel capitolo 6, ma anche in altri capitoli, possono però esistere obiettivi della mediazione del tutto discosti per esempio dalla facilitazione dell’incontro con originali e con l’istituzione per il maggior numero di persone. Di conseguenza possono esistere altri  criteri per la valutazione della mediazione culturale. La resa trasparente e soprattutto la contestualizzazione delle finalità sarebbero però un indicatore per l’intendimento di fornire un contributo al dibattito. Invece, nel testo si rinvia unicamente al processo di elaborazione sviluppato in comune dalle associazioni e alla definizione di museo dell’ICOM (International Council of Museums) come base per i criteri della pubblicazione. Ciò lascia perlomeno presupporre che l’intento sarebbe piuttosto di mettere a disposizione definizioni vincolanti e che quindi si tratta dell’affermazione di potere definitorio. Non da ultimo il manuale va interpretato come un contributo allo sforzo di riconoscimento ufficiale di un campo pratico tradizionalmente marginalizzato come professione seria ai sensi di una dichiarazione di professionalità.

Per una mediazione culturale di critica dell’egemonia, questo testo risulta problematico in virtù della  naturalizzazione dei suoi argomenti. Essa esigerebbe un atteggiamento di fondo riflessivo nei confronti della normatività di criteri e obiettivi – anche dei propri – e l’interrogazione dei rapporti di potere insiti in essi. Essa si occupa di questioni come è possibile conciliare in modo costruttivo i requisiti di qualità posti dall’esterno (ma anche e soprattutto dal proprio campo di lavoro) con i  propri criteri di una prassi critica e con le esistenti condizioni quadro, come si potrebbero influenzare i criteri e le condizioni quadro stabiliti dall’esterno nel proprio senso e, se ciò risultasse impossibile, come si potrebbe eventualmente opporre loro resistenza. Inoltre, essa riflette sulla natura delle relazioni sociali che risultano dall’imperativo relativamente recente della misurazione della qualità e sul loro impatto sui rapporti e le logiche d’azione nel contesto di lavoro. La misurazione della qualità implica relazioni sociali caratterizzate in modo determinante da momenti della fornitura di risultati, della verifica, della valutazione e della fornitura di prove. A questo riguardo emergono diverse domande: una relazione basata su verifiche, fondata su dimostrazioni e orientata ai risultati è davvero ciò che desideriamo per i nostri rapporti, per la costruzione di relazioni e lo sviluppo di azioni nel contesto di lavoro della mediazione culturale? E ancora: «Chi ha [in questo contesto, nota di CM] il diritto di porre quali domande a chi? Chi ha il diritto di rispondere? Chi ha il diritto di vedere qualcosa; chi ha il diritto di dire qualcosa; chi ha il diritto di parlare a nome di chi?» (traduzione della citazione iniziale).

Un esempio per una riflessione sulla qualità nella mediazione culturale in questa prospettiva è una dichiarazione pubblicata nel marzo del 2012 concernente la mediazione teatrale. Nel marzo del 2012 ha avuto luogo presso il Deutsches Theater a Berlino la seconda edizione di  Was geht?, un simposio dell’Arbeitskreis Theaterpädagogik der Berliner Bühnen e dell’Institut für Theaterpädagogik dell’Universität der Künste di Berlino. Al termine è stata pubblicata con il titolo «Wollen Brauchen Können» [Volere occorrere saper fare] una dichiarazione su sapere e saper fare, obiettivi e necessità della pedagogia teatrale in teatri. Nel documento si sottolinea che le mediatrici e i mediatori teatrali «possono assumere una distanza produttiva grazie al cambio di prospettiva», che «dischiudono uno spazio protetto di libertà, riflessione e sperimentazione», e che «rendono produttivi resistenze e disturbi». Sempre in base al documento, gli obiettivi non consistono (solo) «nell’educazione culturale (o nel ‹procacciamento›) del pubblico teatrale di domani, ma (nel) mettere in contatto gli spettatori di oggi con la forma d’arte teatro e con gli artisti» nonché «in una pedagogia teatrale orientata all’arte. Oltre alla trasmissione di contenuti e di conoscenze si tratta soprattutto di generare e rappresentare collettivamente sapere artistico». Nella terza parte del documento «Wollen Brauchen Können» sono elencate le risorse occorrenti al campo di lavoro per porre in atto gli intenti formulati in precedenza. Fanno parte di queste «l’affermazione, in tutta la sua portata, del profilo e del campo di lavoro della mediatrice e del mediatore teatrale presso le direzioni artistiche», «l’autonomia artistica e un budget proprio per programmi di pedagogia teatrale» o una «valutazione artistica, qualitativa, di contenuto del nostro lavoro». Riguardo a quest’ultimo punto viene formulata una critica esplicita nei confronti degli approcci valutativi attualmente sempre più diffusi nei diversi settori della mediazione culturale: «Il nostro lavoro non può essere misurato e valutato con criteri quantitativi, non si rispecchia nel numero di attività intraprese. La valutazione non può consistere nell’addizione del numero di workshop, colloqui con il pubblico, prove in club teatrali, lavori di progetto e dei partecipanti, e nella vendita di questo numero X a se stessi e alla politica come educazione culturale efficace».

Con il collegamento dei tre aspetti potenziali, obiettivi e fabbisogni, le autrici e gli autori cercano un approccio alla questione della qualità nella mediazione teatrale al di là della rivendicazione di renderla misurabile, comprovabile e verificabile da parte di organi esterni. Qui si tenta di formulare principi di lavoro propri e di definire così autonomamente il potenziale specifico, gli obiettivi e i motivi di un lavoro di mediazione orientato alle arti teatrali senza rinvio a organi autorizzanti. Ciò presuppone un autoimpegno della categoria professionale per lo sviluppo, sulla base di una discussione professionale permanente, di un quadro qualitativo ed etico per il settore mantenendo concettualmente abbinate queste due dimensioni. L’anno precedente, il 31 marzo 2011, ad Adalia (TR) le associazioni BAG Spiel und Theater und ÇDD (Çağdaş Drama Derneği), avevano pubblicato una convenzione internazionale sul comportamento e sull’etica delle mediatrici e dei mediatori teatrali. Considerati assieme, questi due documenti possono fungere da riferimento per questo processo evolutivo, pur essendo necessario proseguire la discussione e lo sviluppo di entrambi.

La Gran Bretagna non assume un ruolo di pioniere solo nello sviluppo di modelli per la mediazione culturale, ma anche per quanto concerne le procedure di misurazione della qualità degli stessi. In questo Paese si stanno attualmente sviluppando approcci alternativi per la valutazione. Finora, gli impulsi più significativi provengono dalle «Community Arts» o dalla «Socially Engaged Art», ossia dalla collaborazione (generalmente su mandato di istituzioni di promozione pubbliche o fondazioni) di artiste e artisti con pubblici diversi, generalmente per il   trattamento in comune di problematiche sociali. Ciò d’altronde non sorprende, essendo questi progetti di regola soggetti a un particolare onere della prova riguardo alla qualità e all’efficacia e intrecciandosi in essi i più disparati interessi spesso divergenti con una distribuzione asimmetrica del potere. Al fine di dischiudere una gestione riflessa e  autocapacitativa di questi diversi interessi, l’artista inglese Hanna Hull per esempio ha sviluppato nel 2012 in collaborazione con diverse attrici e diversi attori sei  Toolkits per la riflessione sul lavoro in progetti artistici nel contesto della psichiatria, della riabilitazione e del sistema penale. Uno di essi è intitolato.  Criticality and Evaluation in a Culture of Optimism e offre suggerimenti pratici per un’autovalutazione come prassi critica degli attori partecipanti ai progetti. Ne fanno parte esercizi di descrizione dei diversi interessi che interferiscono nell’allestimento di una valutazione e relativi alla domanda a chi gioverebbe o nuocerebbe di volta in volta lo sviluppo di una descrizione critica che mette in risalto le contraddizioni e le complessità del lavoro e delle sue condizioni. Oppure un esercizio di descrizione e comunicazione di errori produttivi nonché di verifica se le attrici e gli attori sono soddisfatti dei concetti proposti da parte dellla_del committente ai fini della valutazione oppure se altri concetti sarebbero più indicati per un’autodescrizione. Un altro esempio per una gestione dei processi di valutazione improntata alla critica dell’egemonia è la ricerca basata sulla pratica della curatrice, artista e ricercatrice culturale  Sophie Hope, attiva dal 2005 come valutatrice nel settore della mediazione culturale e delle Community Arts. Nel suo libro «Participating in the wrong way?» (Hope 2011), l’autrice documenta a sua volta tentativi di  to reclaim evaluation as a critical practice. Nel progetto «Critical Friends» ha condiviso la responsabilità per la valutazione di progetti di Community Arts nel quartiere londinese di North Greenwich negli anni dal 2008 al 2010 con un gruppo di abitanti del posto. Il lavoro di «Critical Friends» costituito principalmente da interviste e osservazioni partecipanti è stato documentato dal gruppo di progetto e pubblicato più volte come giornale locale. In tal modo è stato reso accessibile non solo alle_ai committenti e alle finanziatrici e ai finanziatori ma all’intera popolazione chiamata a partecipare ai progetti. Il lavoro per la produzione delle edizioni del giornale è servito allo stesso tempo al gruppo da strumento per la sistematizzazione e la valutazione delle opinioni e delle osservazioni raccolte.

Le conclusioni elaborate su questa base hanno permesso di farsi un’idea delle strutture e delle condizioni locali come pure dei più ampi dibattiti e delle logiche di promozione in cui erano inseriti i progetti. Accanto alla messa in evidenza degli aspetti positivi dei progetti, sono stati messi in questione radicalmente l’attuale prassi dell’organizzazione committente e della promozione. Esse si ponevano così in sensibile contrasto con le storie di successo spesso risultanti dalle valutazioni in questo campo. La loro critica concerneva per esempio il conflitto tra l’ambizione di svolgere un lavoro basato sul processo e sulla collaborazione nel quartiere e i mandati conferiti alle artiste e agli artisti di eseguire un progetto a sé stante senza ulteriori prospettive in un tempo relativamente breve; le condizioni di lavoro, dove l’organizzazione presupponeva apparentemente come cosa ovvia che tutti i partecipanti si attivassero ben oltre il tempo convenuto; la critica che i progetti non servissero a risolvere i conflitti ma ad appianarli sostituendo l’attività politica con quella culturale fino alla constatazione che per la maggior parte della popolazione (fino agli stessi partecipanti al progetto) il senso e l’utilità dei progetti restavano oscuri. La valutazione conteneva su questa base anche proposte per un ulteriore sviluppo del programma. Dopo la conclusione del mandato di valutazione il gruppo dei «Critical Friends» è rimasto attivo e ha continuato a incontrarsi per riflettere sugli sviluppi nel quartiere.

Hope menziona il problema che i progetti come «Critical Friends» possono a loro volta fungere da foglia di fico per i committenti se quanto da loro elaborato non comporta conseguenze di sorta. Allorquando Sophie Hope stava scrivendo la sua pubblicazione «Participating in the wrong way», dall’organizzazione committente non era ancora giunta alcuna reazione in merito ai risultati della valutazione del gruppo «Critical Friends». Le domande poste nella citazione iniziale dalla drammaturga americana Anna Deavere Smith potrebbero in tal senso essere completate con la seguente domanda:
«Who has the right to draw consequences and to take action?»

Bibliografia e link

Riferimenti bibliografici:

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