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Lavorare in rapporti di tensione 7:
Ricerca sulla mediazione culturale tra prova dell’efficacia ed esito aperto

«Cultural heritage institutions are increasingly seen as instruments for government policies on social inclusion, cohesion and access […] and required to present evidence of their performance. […] Funding levels across the sector are contingent on being able to present such evidence.» (Brown 2007, S.23)

Nel testo 6.PS è stata ricordata la relativa giovinezza della ricerca nel campo della mediazione culturale. Solo negli ultimi 15 anni sono aumentati gli sforzi per lo sviluppo di analisi della prassi attuale basate sulla ricerca e per una storiografia differenziata. Anche se tradizionalmente nelle professioni pedagogiche predomina lo scetticismo nei confronti della teoria (Patry 2005), attualmente cresce il numero delle persone attive nella mediazione culturale interessate agli stimoli, alle riflessioni concettuali e ai fondamenti argomentativi per lo sviluppo e la fondazione della loro prassi. Ad esempio, nel 2012 è stato fondato il « Salon Kulturvermittlung, eine virtuelle Diskussion zu theoretischen Grundlagen der Kulturvermittlung in Österreich» [Salotto mediazione culturale. Una discussione virtuale sulle basi teoriche della mediazione culturale in Austria].

Nel  testo 7.5 è già stato menzionato il rapporto conflittuale tra aspirazioni di legittimazione e l’esigenza dell’interlocutorietà della ricerca nella mediazione culturale. Nel seguito, si intende descrivere più in dettaglio il campo della ricerca sotto questa prospettiva.

«Orientamento ai visitatori» è diventato a livello internazionale un concetto chiave nel dibattito sulla prospettiva futura di istituzioni culturali sostenute dall’ente pubblico. All’inizio del XXI secolo, David Anderson (allora a capo della Divisione mediazione del Victoria and Albert Museum di Londra, oggi direttore generale dei musei statali del Wales) ha per esempio già parlato di uno spostamento del museo da «Object focused» a «User focused» ( Anderson 2000). A ciò corrispondono anche gli attuali autoposizionamenti della gestione culturale nell’area germanofona, per esempio nella ricerca di una posizione «tra educazione culturale e marketing culturale» (Mandel 2005) e nell’interesse per la mediazione artistica e culturale (Kittlausz, Pauleit 2006). L’idea dell’orientamento in funzione dei visitatori è legata a un concetto di istituzioni culturali come luoghi di apprendimento sociale che, rispetto alla scuola e alle scuole superiori, sono intese come tipi ideali per un «apprendimento permanente» automotivato (John, Dauschek 2008; vedi testo, con i relativi effetti di trasferimento sulla disponibilità prestazionale e il comportamento sociale degli individui. A ciò si riallaccia di conseguenza anche una parte sostanziale dell’attività di ricerca nella mediazione culturale. In effetti, come si accenna nella citazione iniziale a questo testo, più il finanziamento pubblico delle istituzioni risulta legittimato dai loro effetti di trasferimento e formazione, tanto più è necessario comprovare tali effetti. Un’altra parte si concentra sulla prova e la promozione della  funzione riproduttiva della mediazione culturale Qui si trovano soprattutto valutazioni dell’effetto educativo di progetti di mediazione sulle e sui partecipanti o test di pannelli, luoghi di rappresentazione e infrastrutture in vista delle modalità d’uso da parte del pubblico con lo scopo dell’ottimizzazione dell’utilizzazione e dell’estensione del pubblico (cfr. a titolo esemplare per il settore museale le corrispondenti offerte  dell’Arbeitsgruppe für empirische Bildungsforschung e.V.

Le valutazioni e i rilevamenti della situazione sono non solo le più diffuse, ma anche le prime forme di attività di ricerca in riferimento alla mediazione. In Gran Bretagna e negli USA sono stati effettuati già negli anni 1940 studi sul mandato educativo di musei e il loro status quo per quanto concerne la mediazione, sia finanziati da organizzazioni governative e associazioni (Low 1942), sia effettuati a titolo di ricerca indipendente da singoli ricercatori che intendevano ripensare il museo (Wittlin 1949).

Accanto ai metodi di rilevamento quantitativi e qualitativi della ricerca sociale e di mercato, come il ricorso a focus group, l’osservazione del comportamento delle visitatrici e dei visitatori, il rilevamento dei loro dati demografici e delle loro opinioni, fanno parte degli strumenti della ricerca sul pubblico anche metodi di ricerca dedotti dalla psicologia cognitiva1 come quello del «pensare ad alta voce» (Dufresne-Tasse, Lefebvre 1994, p.469 segg.), in cui le visitatrici e i visitatori sono motivati a partecipare a metodi sperimentali come soggetti del test. Un esempio recente di collegamento di procedure neuroscientifiche, pertinenti alla sociologia della cultura e artistiche per il trattamento di una questione di strategia di mercato è lo studio  eMotion (Tschacher et al. 2012) realizzato presso la Scuola universitaria professionale Fachhochschule Nordwestschweiz in cooperazione con il Kunstmuseum San Gallo.

In linea di principio, nella ricerca sulle visitatrici e sui visitatori vanno distinte due prospettive: una,storicamente antecedente, ritiene che il pubblico sia costituito da un gruppo più o meno omogeneo le cui esigenze e i cui comportamenti possono essere descritti e i cui accrescimenti di conoscenza possono essere misurati. L’altra, predominante dagli anni 1990, intende le visitatrici e i visitatori come un gruppo eterogeneo, i cui membri interpretano attivamente i contenuti e si appropriano in modo performativo delle istituzioni culturali. La ricerca è quindi intesa come interpretativa e tendente alla costruzione di significato e non come obiettivamente descrittiva (Harrasser 2012, p. 15). Anche gli ultimi approcci menzionati sono finora impiegati in prevalenza ai fini della fornitura della prova d’efficacia. Per fornire a musei, biblioteche e archivi sostenuti finanziariamente dallo Stato uno strumento impiegabile dagli stessi ai fini della prova d’efficacia richiesta, Eilean Hooper-Greenhill ha per esempio sviluppato presso la School of Museum Studies dell’University of Leicester su mandato del Council for Museums, Archives and Libraries d’allora lo strumento dei  Generic Learning Outcomes [Risultati generali dell’apprendimento] (Hooper, Greenhill 2007). Si tratta di sondaggi che possono essere compiuti dalle istituzioni stesse tra le visitatrici e i visitatori e che rilevano lungo sei categorie come per esempio «conoscenza e comprensione» o «atteggiamento e valori» diverse dimensioni dell’apprendimento informale.2 A soli due anni dalla loro pubblicazione, i Generic Learning Outcomes erano già stati adottati da circa metà di tutti i musei inglesi e si stanno diffondendo anche nell’area germanofona (per es. nel Museo per l’infanzia  Frida und Fred, di Graz in cooperazione con  l’Università di Graz. Anche se l’approccio dei Generic Learning Outcomes considera le visitatrici e i visitatori come soggetti attivi ed eterogenei, va rilevato che, pur offrendo potenzialmente occasioni di autoriflessione per le istituzioni, le mediatrici e i mediatori culturali (come pure per l’utenza), l’esito aperto come criterio informativo per il lavoro scientifico è però talvolta difficile da garantire. Questo soprattutto allorquando l’esistenza dell’istituzione sulla quale è effettuata la ricerca dipende implicitamente o esplicitamente dalla valutazione positiva del suo effetto formativo (Loomis 2002). In questi casi, la ricerca è talvolta difficile da distinguere da una prestazione di servizio, nella misura in cui i presupposti e gli intendimenti dei relativi committenti raramente sono fatti essi stessi oggetto di analisi e critica. Spesso è molto ridotto anche il grado di autoriflessività – per esempio in relazione ai  presupposti normativi delle categorie d’analisi impiegate. Essa costituisce un passo indietro rispetto al «Reflexive Turn» (Bachmann-Medick 2006) quindi all’autoriflessione critica stabilita da decenni della pretesa di verità della ricerca, dell’autorità e del potere delle ricercatrici e dei ricercatori e della loro influenza sulla produzione del sapere. Di conseguenza, contribuisce tendenzialmente meno allo sviluppo dell’identità della mediazione culturale come prassi autonoma e critica quanto invece corre il rischio di incanalarla lungo obiettivi istituzionali e politici (Mastai 2007).

Nondimeno, si trovano sempre più esempi di ricerca sulla mediazione culturale che articolano il proprio lavoro sulla base della svolta riflessiva. Anche se molti restano all’interno della costellazione consolidata di ricercatori e «ricercati», essi provvedono tuttavia, anziché alla fornitura della prova d’efficacia, a un’analisi critica della cultura, delle sue istituzioni e delle sue pratiche di mediazione. Così per esempio il progetto «Science with all Senses – Gender and Science in the Making», che ha analizzato con mezzi etnometodologici l’acquisizione di conoscenze dei bambini nei musei viennesi lungo le categorie classe, etnicità e sesso (Harrasser et al. 2012).

Altri progetti si distinguono per il fatto che cercano, tramite i mezzi della  ricerca–azione , di meglio immorsare la ricerca con lo sviluppo della mediazione culturale associando alla ricerca professioniste e professionisti della mediazione. Esistono anche progetti volti a sottrarre le visitatrici e i visitatori al loro ruolo di cavie sviluppando design di ricerca basati sulla loro partecipazione attiva e riflessiva. In tal senso, ad esempio, il progetto svizzero «Ästhetische Kommunikation im Kindertheater» [Comunicazione estetica nel teatro per l’infanzia] ha impiegato scrittura creativa, disegno e altri mezzi creativi liberi per individuare le percezioni individuali dei bambini che assistono a uno spettacolo teatrale non solo tramite osservazioni ma anche a partire dalle loro articolazioni proprie (Baumgart 2012). In un programma modello nazionale con accompagnamento scientifico in Inghilterra dal titolo  enquire (2004–2011) hanno collaborato con il motto «Learning in Galleries» artiste, artisti, allieve e allievi, studentesse e studenti, docenti, ricercatrici e ricercatori nonché mediatrici e mediatori. Nel quadro di questo programma, i giovani hanno sviluppato strumenti interpretativi sperimentali per il lavoro con il pubblico. I progetti sono legati alla partecipazione delle allieve e degli allievi ed esaminano parallelamente il loro comportamento d’apprendimento e le dinamiche di collaborazione tra museo e scuola. Essi però interrogano criticamente anche la sovranità ermeneutica dei musei e le loro pratiche di mediazione tramandate. Un progetto che considera in particolare quest’ultimo aspetto, è  «Tate Encounters (Dewdney et al. 2012), attuato da Tate Britain dal 2007 al 2010 in cooperazione con la London South Bank University e l’University of the Arts di Londra. In questo progetto, un gruppo di ricerca composto da ricercatrici e ricercatori, personale del museo e studenti con background migratorio in senso ampio,3 ha indagato su come venga prodotta  Britishness tramite le modalità espositive del museo. I risultati della ricerca mettono radicalmente in discussione la Cultural  Diversity Policy del museo e offrono prospettive per un diverso lavoro di mediazione e curatoriale in istituzioni espositive. Tate Encounters era informato degli approcci della  museologia critica e cercava su questa base di sviluppare concettualmente la prassi istituzionale. Il progetto perseguiva l’intento di rendere permeabili le gerarchie tra ricercatori e i soggetti della ricerca, docenti e discenti e di praticare la «ricerca sulle visitatrici e i visitatori» sopra descritta come «ricerca in collaborazione con le visitatrici e i visitatori». In ciò, era parte integrante l’elaborazione e la riflessione delle gerarchie presenti per forza di cose tra ricercatrici e ricercatori professionisti e partecipanti di altri settori. Ad esempio, le_i giovani partecipanti sono state_i addestrate_i metodologicamente come «co-ricercatrici e co-ricercatori». Progetti simili sono attuati ultimamente anche nell’area germanofona. Ad esempio, anche il progetto di ricerca sulla mediazione alla documenta 12 perseguiva lo stesso intendimento (Wieczorek et al. 2009; Mörsch et al. 2009). L’educazione è stata dichiarata dalle curatrici e dai curatori della d12 uno dei tre temi della mostra internazionale di arte contemporanea. Ne è risultato un concetto di mediazione che favoriva il dialogo sull’arte e il dibattito sull’educazione rispetto alla mediazione autorizzata del sapere. La mediazione si collocava come «amica critica» (Mörsch 2008) nei confronti dell’esposizione. Venti delle mediatrici e dei mediatori indipendenti hanno attuato un progetto di ricerca collettiva che cercava, tramite i metodi della mediazione – come ricerca, come performance e come intervento – di compiere analisi volte a una trasformazione della prassi e delle sue condizioni ai sensi di una «ricerca militante» ( Malo 2004;  Graham 2010). Con questo esempio appare evidente che uno degli obiettivi di questi approcci di ricerca nella mediazione culturale è la capacitazione, l’empowerment delle_dei partecipanti agli stessi. Così anche nel progetto «Kunstvermittlung in Transformation» [Mediazione d’arte in trasformazione] basato sulla ricerca-azione svoltosi tra il 2009 e il 2011 con la partecipazione di quattro accademie d’arte svizzere e cinque musei con l’obiettivo di sviluppare ulteriormente, sulla base della ricerca e di concerto con i professionisti, la prassi di mediazione nei musei e l’occupazione delle scuole universitarie con il settore della mediazione museale (Settele et al. 2012). Molte_i partecipanti hanno dichiarato al termine del progetto che lo statuto del settore della mediazione culturale sarebbe migliorato nella propria istituzione. Una collega del settore museale ha specificato che in virtù del rimando al contesto di ricerca risultava più facile motivare nel proprio gruppo esperimenti pratici e riflessioni teoriche4.

La practitioner research, ossia la prassi riflessiva, non offre alcuna via d’uscita dalla conflittualità tra la prova degli effetti desiderati e l’esito aperto della ricerca. Essa può però alimentare lo sviluppo della capacità riflessiva nel campo pratico, produrre risultati applicabili e contribuire così al proprio ulteriore sviluppo senza per questo asservirsi a imperativi istituzionali o di politica culturale, ma anche senza fingere verginità rispetto a questi. Essa cela quindi il potenziale di una valorizzazione produttiva di rapporti di tensione anche a livello di ricerca.

1 Cfr. in proposito per esempio le pubblicazioni e i progetti del Forschungsschwerpunkt Psychologische Ästhetik und kognitive Ergonomie dell’Università di Vienna o della Gesellschaft für empirische Ästhetik: http://science-of-aesthetics.org [14.10.2012].

2 Per un elenco dettagliato e una critica di queste categorie → vedi testo 3.PS.

3 Per la partecipazione al progetto di ricerca dovevano essere adempiute due condizioni: gli studenti dovevano provenire da una famiglia immigrata in Inghilterra (la provenienza non aveva alcuna importanza) e dovevano essere i primi della famiglia a frequentare l’università.

4 Presso un altro museo è stata istituita per tre anni la nuova funzione di «curatrice della mediazione» → vedi testo 5.PS.

Bibliografia e link

Il testo si basa in parte sui seguenti contributi già pubblicati:

Altri riferimenti bibliografici:

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