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Lavorare in rapporti di tensione 9:
Sfide nella e tramite la documentazione della mediazione artistica

«L’aspetto decisivo nella rappresentazione è sempre stato il come e il perché qualcuno è ‹rappresentato›, ‹raffigurato›, ‹mostrato›, ‹richiamato alla mente› in una data forma, qual è il suo scopo e cosa ne rimane escluso, vale a dire reso invisibile tramite la visibilità. Si tratta del potere del far vedere.» ( Sturm 2001)

La documentazione delle attività di mediazione artistica è spesso compito delle mediatrici e dei mediatori d’arte e li coinvolge – volenti o nolenti – nel confronto con le modalità di rappresentazione e i relativi effetti. Quale descrizione o quale fotografia è abbastanza «espressiva», «idonea» o «adeguata» per rendere conto di un accadimento, è una delle questioni da affrontare a questo proposito. Le pratiche di documentazione possono però essere oggetto di più approfondita riflessione seguendo la pista di domande come: chi decide sulla forma della visibilità? Quale interesse determina questa decisione? Chi è rappresentato in che modo e con quale designazione? Cosa è mostrato ripetutamente e cosa non viene mai fatto vedere? Chi o cosa rimane invisibile o anonimo in virtù della modalità di documentazione? E come ciò che viene mostrato ottiene la sua evidenza e la sua forza probante? Alla base di questa prospettiva di  critica della rappresentazione vi è la constatazione che le documentazioni non riproducono immediatamente il lavoro di mediazione, ma rappresentano e costruiscono in un determinato modo gli oggetti, le persone e i progetti mostrati. Documentare si basa sul processo attivo di scelta, creazione ed esibizione, talché chi effettua la documentazione gestisce un compito influente e impegnativo.1

Per riflettere sulla produzione di significato e di normalità nella rappresentazione della mediazione artistica si ricorre dapprima all’esempio della documentazione di una giornata per le famiglie che in molti musei fa parte del programma di mediazione. In vista della documentazione di un tale evento, determinati motivi appaiono come previsti e adeguati, altri invece sembrano inadeguati e non vengono documentati. Ad esempio, raramente vengono illustrati i preparativi e i successivi lavori di riordino di una giornata per le famiglie, raramente mostrati bambini impazienti o litigiosi, raramente anche le lacrime versate dopo un tentativo fallito di creazione, pause o tempi d’attesa, genitori annoiati o mediatrici e mediatori stressati. L’omissione di determinati aspetti è una parte centrale del lavoro di rappresentazione e della produzione di significato, così come la ripetizione di altri. La scelta dei motivi per una documentazione e il loro impiego ripetuto sono stabiliti in gran parte tramite regole e routine istituzionalizzate del mostrare che puntano a una specifica valorizzazione delle rappresentazioni della mediazione artistica: per indirizzare la «famiglia» come gruppo mirato, per mettere in scena il museo come luogo per particolari attività del tempo libero oppure per dimostrare agli sponsor l’attuazione riuscita di un progetto. Queste rappresentazioni, di regola orientate all’univocità e alla riconoscibilità, comprendono un repertorio limitato di motivi correnti e continuamente mostrati nelle loro variazioni.2

In relazione a una giornata per le famiglie, potrebbe trattarsi della rappresentazione di due adulti e due bambini affiancati con la schiena rivolta verso la fotocamera e con il corpo e lo sguardo orientati verso un grande dipinto. Potrebbe trattarsi altresì di una visita guidata con bambini, di adulti e una mediatrice o un mediatore che indica un’opera d’arte o di una scena d’atelier in cui un bambino siede con un adulto a un tavolo macchiato di colore mentre insieme lavorano concentrati alla creazione di un oggetto. Queste rappresentazioni vengono facilmente decodificate come mediazione culturale e famiglia e spesso prodotte per rappresentare una giornata per le famiglie nel quadro della documentazione di mediazione artistica. Ma il ripetuto mostrare del previsto fissa una volta in più determinati significati e immagini mentali.

Il motivo presentato qui sotto forma di sagome è una modalità di rappresentazione comune della mediazione d’arte nonché delle visitatrici e dei visitatori dei musei in generale – manca solo una didascalia appropriata, del tipo: grandi e piccini – tutta la famiglia è attratta dall’arte. Ma il mantenimento e la presentazione di questa scena evoca altre immagini mentali. In effetti, l’osservazione di opere d’arte originali in un siffatto atteggiamento contemplativo è per esempio anche uno dei  riferimenti simbolici tramandati per urbanità, istruzione e, in breve, contegno borghese per eccellenza (Bourdieu 1983), che sono connessi in quanto altri livelli di significato con la rappresentazione scelta. Di conseguenza, con questo tipo di rappresentazione viene richiamato un determinato pubblico ed evidenziato un determinato comportamento nel museo.

Ma anche se questa rappresentazione tipica per la mediazione culturale non fosse mostrata esplicitamente con la titolazione «Giornata delle famiglie», rimane però evidente: questa «è» una famiglia. Il gruppo di persone è identificato ovviamente come una «famiglia». Questa percezione e questo riconoscimento sottintesi non sono prodotti naturalmente, ma l’effetto di insistenti processi di una ripetuta identica designazione in disparati luoghi.3 Queste reiterazioni «autenticano» nella percezione determinate costellazioni di persone come famiglia e creano così immagini mentali di famiglie «vere», «autentiche».4Parallelamente vengono però così tracciati anche i confini della norma e rese identificabili determinate costellazioni di persone e determinati comportamenti come famiglia anormale, oppure viene loro del tutto negata questa identità – il che può comportare gravi conseguenze riguardo al loro riconoscimento sociale, societario o giuridico e quindi alla garanzia del fabbisogno vitale.5


Foto © Henrike Plegge,
Stephan Fürstenberg
Il mostrare e designare della famiglia nel contesto di documentazioni concernenti la mediazione d’arte sono quindi implicati nella riproduzione predominante e affatto violenta di normalità che va considerata nella documentazione. Ma allora, cosa si può fare in relazione alla rappresentazione della mediazione d’arte? Sarebbe forse meglio evitare del tutto di mostrare persone in riferimento alle giornate familiari? Sarebbe indubbiamente una possibilità scegliere visualizzazioni che mostrano unicamente attrezzi, locali, prodotti o tracce del lavoro di mediazione. Ma l’esibizione normalizzante della famiglia accade comunque altrove. Proprio la documentazione della mediazione artistica rappresenta perciò una possibilità d’interruzione delle pratiche dominanti del mostrare e designare. Per esempio, mostrando nel quadro della «giornata delle famiglie» costellazioni di persone che «normalmente» non rappresentano la famiglia, o sviluppando rappresentazioni differenti che non recano implicitamente l’etichetta della «famiglia».6

Ma non tutte le rappresentazioni sono di per sé così univocizzanti, motivo per cui le fotografie scelte per una documentazione sono spesso munite di didascalie. Titolazioni e legende vengono posti accanto all’immagine quando si tratta di evidenziare o di rendere meno indeterminato qualcosa. Si designa ciò che è importante e significativo: chi o cosa si vede sull’immagine? Quando e in quale occasione è stata scattata la fotografia? Cosa si intende mostrare? In tal modo, si limita il «flusso» di significato: la polivocità delle fotografie è limitata per stabilire ed evidenziare determinate letture e determinati messaggi. Alle persone e situazioni mostrate e designate sono così attribuite una visibilità e un’identità specifiche.

A titolo d’esempio per un trattamento diverso della titolazione può essere considerata la seguente fotografia con i suoi commenti, realizzata nel quadro del programma di mediazione «micro-fiction** – Ist Demokratie gerecht?» (2009). 7

Dando seguito a un’idea delle mediatrici e dei mediatori, le foto realizzate durante il progetto sono state commentate dalle partecipanti e dai partecipanti al workshop per aggiungere aspetti mancanti o invisibili ma che dal loro punto di vista erano importanti per il progetto. Da un lato, mediante questo compito di commento nel quadro del progetto micro-fiction**, si è cercato di coinvolgere le persone rappresentate nel processo di documentazione del «loro» progetto. Registrare assieme un evento è un possibile approccio per contrastare rapporti di potere asimmetrici tra coloro che documentano e coloro che vengono documentati.8 Anziché concentrarsi unicamente su una comunicazione unilaterale da parte di esponenti istituzionali riguardo ai progetti, alle loro partecipanti e ai loro partecipanti, possono essere create condizioni quadro in cui le possibilità di realizzazione e il potere decisionale sono trasferiti a tutti coloro che vi partecipano, talché nella documentazione si dispiega un’espressione polivocale. Per esempio, tramite il passaggio della fotocamera all’interno del gruppo per la documentazione del decorso di un progetto, una visione e selezione comune delle rappresentazioni per la pubblicazione al termine del progetto oppure – come nell’esempio menzionato – la discussione comune e l’aggiunta di commenti alle fotografie realizzate.

Tramite l’annotazione delle foto è stato possibile realizzare almeno in parte per tutti coloro che hanno partecipato uno spazio per la partecipazione e la formulazione di obiezioni a livello della documentazione dando contemporaneamente visibilità a quei piccoli momenti e a quelle elusività (cfr. Mörsch 2005) che caratterizzano e rendono speciali i processi di mediazione. Qui si tratta di aspetti come il gran caldo durante il montaggio audio nel carrozzone, il nome dei giovani o il rimando ammiccante alla disciplina aggiunto dalle allieve e dagli allievi. Aspetti che nella «prevista» rappresentazione del progetto non trovano considerazione, dato che non hanno apparentemente alcuna funzione rappresentativa.

Con questo intervento sulle fotografie, non dovrebbe però trattarsi di rendere visibile tutto l’invisibile. Questo sarebbe impossibile, non foss’altro per il fatto che documentazione non significa trasparenza, dato che la documentazione si basa sempre su un’interazione tra visibilità e invisibilità. Nondimeno, i commenti in micro-fiction** possono essere intesi come un’allusione all’esistenza di elementi invisibili e non designati nel quadro della documentazione del progetto nel documento stesso. In tal modo, la modalità della documentazione stessa costituisce uno spunto per la riflessione sulla documentazione.

I margini e le possibilità di realizzazione del lavoro di documentazione non sono così limitati da implicare la necessità di registrare, scegliere e (ri-)proporre sempre solo quanto previsto,9 ma il potere decisionale sul far vedere il lavoro di mediazione risiede solo in parte presso gli stessi responsabili della documentazione. Le ricorrenti invisibilità e le mancate designazioni di determinati dettagli nei processi di documentazione hanno la loro causa spesso in interessi divergenti, pretese di rappresentatività, regole istituzionalizzate e routine del mostrare il lavoro di mediazione. Ciò appare evidente anche nella presentazione di micro-fiction**, allorquando sul sito web dei promotori il progetto è rappresentato solo tramite fotografie non annotate.10 Con questo modo di rappresentazione i «piccoli momenti» restano per le_i destinatari invisibili. Le visualizzazioni fungono piuttosto da una sorta di «prova fotografica» in cui, tramite la ripresa fotografica delle persone e delle loro attività, si dà prova dell’esecuzione del progetto. Questo scopo delle documentazioni è ulteriormente rafforzato dall’impiego della fotografia come mezzo di documentazione «oggettivo», dato che trasmette l’idea della rappresentazione immediata di un evento.

Uno sguardo negli archivi dei dipartimenti preposti alla mediazione evidenzia come le documentazioni costituiscano un ambito d’opportunità per la considerazione delle idee e degli interessi delle mediatrici e dei mediatori responsabili della documentazione, ma anche uno spazio libero per modalità di rappresentazioni orientate al cambiamento, in cui vi è posto per tecniche di registrazione sperimentali, documentazione partecipante, una scelta dei documenti orientata al progetto e ai processi nonché un mostrare critico della rappresentatività. In effetti, al di là di un «documentarismo» orientato in base alla legittimazione e alla ripetizione del previsto, possono essere ideate modalità di documentazione sorprendenti e stimolanti che sfruttano il potenziale del mezzo impiegato e lo combinano con altri procedimenti di registrazione. Ma «altre» rappresentazioni possono essere create anche incentrando l’attenzione su motivi e momenti finora rimasti esclusi dalla documentazione, apparentemente inadeguati o insignificanti, che vanno oltre il previsto.

Le modalità di documentazione tendenti alla trasformazione non sono limitate soltanto dalla frequente mancanza di disponibilità di risorse finanziarie e umane e dal ridotto potere decisionale ed esecutivo delle mediatrici e dei mediatori che si occupano della documentazione. A tale limitazione è strettamente connesso anche il conflitto emergente nelle documentazioni tra interessi ed esigenze divergenti nella rappresentazione del lavoro di mediazione. È così possibile ad esempio che nell’elaborazione di una documentazione l’intento di realizzare una documentazione stimolante e riflessiva di un progetto assieme alle partecipanti e ai partecipanti si scontri con l’interesse di comprovare il successo del proprio lavoro al fine di giustificare in tal modo l’impiego di risorse e di assicurarle per il futuro, oppure collida con le esigenze di rappresentazione della propria istituzione che tramite la documentazione del «suo» lavoro di mediazione vorrebbe anch’essa essere rappresentata in modo adeguato. Continuare a produrre documentazione trasformativa in questa situazione conflittuale rimarrà anche in futuro una grande, ma proficua sfida per le mediatrici e i mediatori.

1 Il sociologo e teorico della cultura Stuart Hall descrive la rappresentazione come un «active work of selecting and presenting, of structuring and shaping: not merely the transmitting of an already-existing meaning, but the more active labour of making things mean.» (Hall 1982, p.64).

2 Cfr. in proposito anche i risultati del progetto di ricerca del FNS «Kunstvermittlung zeigen» [mostrare la mediazione artistica] 2011–13 → http://iae.zhdk.ch/iae/deutsch/forschung-entwicklung/projekte/kunstvermittlung-zeigen-repraesentationen-paedagogischer-museumsarbeit-im-feld-der-gegenwartskunst-laufend [22.2.2013]

3 Per esempio nel campo dei mass media, della medicina, della politica, delle scienze, dell’arte e della cultura o del diritto – definito da Stuart Hall come «regime di rappresentazione».

4 Vedi in proposito il manifesto «when they say family» del progetto di public art «Hey Hetero!» (2001) di Deborah Kelly e Tina Fiveash, che da un lato evidenzia criticamente la normalità e la regolarità di coppie eterosessuali in relazione alla famiglia, dall’altro espone anche altre caratteristiche come whiteness, non-disabilità e classe media o un armonioso convivere come appartenenti all’immagine normale di famiglia. Cfr → http://tinafiveash.com.au/hey_hetero_when_they_say_family.html [21.09.2012]

5 Come per es. nel caso di mamme e papà teenager, genitori con menomazioni fisiche o psichiche o convivenze non eterosessuali.

6 Un esempio ispirante per un lavoro di mediazione che analizza criticamente la normalità e l’ovvietà in riferimento alla «famiglia» è il progetto «Familienstudio Kotti – oder die Möglichkeit sich gemeinsam neu zu erfinden» [Studio fotografico per famiglie Kotti – o la possibilità di reinventarsi assieme] di Bill Masuch nel quadro del gruppo di progetto Kunstcoop©. Qui viene sviluppata mediante ritratti fotografici di passanti che formano spontaneamente per strada nuove «famiglie» un confronto con e lo spostamento di immagini dominanti della famiglia in cui non da ultimo gli sfondi dipinti dei ritratti rimandano all’artificiosità delle «situazioni familiari» e delle loro rappresentazioni (cfr. NGBK 2002, p.131 seg.).

7 Una collaborazione tra ZKM – Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe e il Windeck Gymnasium Bühl nel quadro dell’iniziativa «Städte im Wissenschaftsjahr». Concetto, realizzazione e diritti fotografici: Henrike Plegge, Stephan Fürstenberg.

8 In questo contesto sono domande critiche della rappresentazione: «Chi rappresenta, chi è rappresentato? Chi è visibile e riconosciuto? Chi non è visibile? Chi può e sa rappresentare se stesso? Chi non può e non sa rappresentare se stesso? Chi ha facoltà di parlare di altri e di rappresentare altri? Chi è considerato portavoce legittimo del gruppo?» (Broden, Mecheril 2007, p. 14; → http://pub.uni-bielefeld.de/download/2306439/2306444 [2.1.2013], vedi documentazione MFV0902.pdf.

9 Qui è possibile lavorare in condizioni nettamente meno restrittive rispetto a per es. in report per sponsor dove spesso sono prescritte forme stabilite di resoconto.

10 Cfr. → http://www.staedte-im-wissenschaftsjahr.de/2009/tp_karlsruhe_schuelerrecherche.html [21.9.2012].

Bibliografia e link

Riferimenti bibliografici:

  • Bourdieu, Pierre: La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna: Il Mulino, 1983
  • Broden, Anne; Mecheril, Paul: «Migrationsgesellschaftliche Re-Präsentationen. Eine Einführung», in: Broden, Anne; Mecheril, Paul (a c. d.): Re-Präsentationen. Dynamiken der Migrationsgesellschaft, Düsseldorf: IDA-NRW, 2007
  • Hall, Stuart: «The Rediscovery of Ideology: Return of the repressed in media studies», in: Gurevitch, Michael, et al. (a c. d.): Culture, Society and the Media, Londra: Methuen, 1982, pp.56–90
  • Mörsch, Carmen: «Application: Proposal for a youth project dealing with forms of youth visibility in galleries», in: Harding, Anna (a c. d.): Magic Moments. Collaborations between Artists and Young People, Londra: Black Dog, 2005, pp.198–205
  • NGBK Berlin (a c. d.): Kunstcoop©, Berlino: Vice Versa, 2002

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