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Lavorare in rapporti di tensione 6:
Mediazione culturale tra necessità di legittimazione e critica dell’egemonia

«A questo punto ci si dovrà pur chiedere se c’è una via d’uscita da questa intricata matassa. Se è vero che la pedagogia è una delle principali tecnologie del dominio, può esistere qualcosa come una mediazione d’arte progressista o emancipativa? […] La questione è cruciale, poiché qualcosa di intermedio –una «pedagogia neutrale» – non esiste.» (Marchart 2005)

La posizione paritaria e autonoma della mediazione (come prassi e ambito discorsivo) nelle istituzioni culturali e nei confronti delle arti rivendicata alla fine del testo per chi ha un po’ di tempo nel capitolo 5 è finora realizzata solo occasionalmente.

Ciò determina un ulteriore rapporto di tensione per una mediazione culturale che vorrebbe intendersi prassi critica. Le sue rappresentanti e i suoi rappresentanti sono costretti a compiere un’opera di sensibilizzazione per quest’ambito di lavoro, a legittimarsi nei confronti delle istituzioni, dell’arte e dei decisori della politica culturale ed educativa e non da ultimo nei confronti delle proprie colleghe e dei propri colleghi. E quindi il ricorso agli argomenti disponibili menzionati nei testi per chi ha fretta nel capitolo 6 appare abbastanza ovvio. Allo stesso tempo sono consapevoli delle critiche, anch’esse menzionate, rivolte a queste legittimazioni; in parte sono essi stessi le autrici e gli autori di tali critiche.1 Prima di iniziare a riflettere sulla gestione di quest’ambito conflittuale, riassumiamo brevemente le principali critiche, proponendo così allo stesso tempo un riassunto intermedio delle problematizzazioni effettuate nei capitoli precedenti.2

Una delle critiche centrali si rivolge alla strumentalizzazione delle arti e alla loro mediazione come fattori economici e di localizzazione. Secondo questa critica, il potenziale delle arti risiederebbe proprio nel confronto con l’inutile, il non sfruttabile, il provocatorio, lo scomodo, l’imponderabile, il differente e l’intraducibile. Iniziative come il «Kompetenznachweis Kultur» [certificato di competenza culturale] della tedesca Bundesvereinigung für Kulturelle Jugendbildung, in cui alle e ai giovani partecipanti è rilasciato in offerte di mediazione culturale un certificato, vanno in questa prospettiva in una direzione sbagliata, in quanto vincolano gli argomenti per la mediazione culturale fortemente alla loro spendibilità sul mercato del lavoro ai sensi di una maggiore «employability» delle e dei partecipanti. Questo significa implicitamente un’economicizzazione dell’arte e dell’educazione. L’incremento della competitività e della capacità produttiva è considerato di per sé positivo, dimenticando che in realtà è proprio anche a partire dalle arti che vengono sviluppate altre visioni per l’organizzazione della società. Si constata inoltre che almeno finora perdura la  precarizzazione ei cosiddetti «creativi» nonostante la rivalutazione del loro campo di lavoro. Nel contesto di una deregolamentazione dei mercati e dei sistemi sociali, con gli attributi loro ascritti quali flessibilità, disponibilità ad assumere rischi, disponibilità all’impegno e autoresponsabilità si prestano egregiamente come modelli di ruolo.

La messa in rilievo di cosiddetti «effetti di trasferimento» della mediazione culturale con rimando alle conoscenze delle neuroscienze è anch’essa permeata dal paradigma della concorrenza. Essa è incentrata sullo sviluppo personale e sul potenziamento delle prestazioni senza tematizzare il contesto sociale. Inoltre, le motivazioni neuroscientifiche della mediazione culturale tendono ancora ad assolutizzare come «cultura» i concetti conservatori dell’alta cultura canonizzata. I genitori dovrebbero far ascoltare ai loro embrioni musica classica, non punk rock.

Specialmente nel contesto anglosassone, in cui studi come «Use or Ornament?» di François Matarasso, che nel 1997 ha elencato cinquanta effetti di trasferimento positivi della mediazione culturale, hanno comportato massicce conseguenze di politica di promozione, viene sollevata la critica che siffatti studi, sia d’orientamento neuroscientifico sia d’impostazione sociologica, non sarebbero effettivamente validi (Merli 2002). Mentre gli argomenti informati alle neuroscienze per la mediazione culturale pongono al centro la prestazione cognitiva individuale, gli studi nell’ambito delle scienze sociali come quello di Matarasso sottolineano gli effetti positivi di trasferimento della mediazione culturale nel contesto sociale e sul comportamento sociale. In questa legittimazione è criticabile il fatto che la «partecipazione culturale» si sostituisca alla reale partecipazione politica. Come esempio in tal senso si può menzionare un governo conservatore di uno Stato federale tedesco che, al momento dell’assunzione dei poteri, ha tagliato i fondi alle iniziative antirazziste regionali pretendendo nel contempo dalle libere scuole d’arte della regione di attuare progetti nelle scuole medie «con elevata presenza di migranti» (Mörsch 2007). Qui non è avvenuto solo uno spostamento della lotta contro il problema dai colpevoli alle vittime, ma si è trattato altresì implicitamente di una  Culturalizzazione del problema politico e della società nel suo complesso. Questa problematica è resa più acuta dal fatto che il concetto di cultura è doppiamente ipotecato: «La nascita del concetto di cultura è viziata da un problema d’identificazione nella misura in cui una cultura si determina solo nella distinzione rispetto ad altre culture. In nome della cultura, il distacco dai valori tradizionali, che caratterizza l’era moderna, è regolarmente reinterpretato a favore di un’enfatica fantasia autofondante che di per sé concettualizza le differenze culturali in maniera asimmetrica secondo caratteristiche dominanti e inferiori. […] Da qui ogni cultura si fa riconoscere come coloniale» (Rölli 2006, p. 30–41). Affermando il postulato che l’educazione culturale sia di per sé buona per «l’uomo», occorre considerare che con essa avviene spesso anche la trasmissione perlomeno implicita di valori occidentali, anche d’identità nazionale. Di converso, il postulato della promozione della «pluralità culturale» comporta il rischio di  un’essenzializzazione etnica, in quanto le persone sono rinviate alle pratiche culturali dei loro Paesi d’origine – ascritte dall’esterno. Alle attrici e agli attori così indirizzate_i è difficilmente concesso un altro posto all’interno del campo culturale ( Steyerl 2007). Quest’osservazione critica assume una particolare rilevanza nella misura in cui si può attualmente osservare uno spostamento dal «razzismo biologico» al «razzismo culturale». Episodi di soprusi a sfondo razzista, il controllo statale, gli inasprimenti delle leggi e le cronache giornalistiche si orientano sempre più secondo una matrice di opposizioni marcate «culturalmente» come «Islam contro occidente» (Taguieff 1998).

Un compito come il summenzionato alle scuole d’arte per giovani sarà stato attribuito con le migliori intenzioni. Raramente però in queste imprese viene considerato, nell’impegno per il cambiamento, anche il contesto sociale all’origine della disparità di trattamento. In questi progetti il superamento della propria situazione e l’interessamento rimangono di regola compito delle persone toccate individualmente. Tanto meno sono riflettute le attribuzioni  paternaliste che avvengono tramite gli indirizzamenti di gruppo minorizzati. Il concetto d’inclusione risulta inoltre problematico per il presupposto della cultura e delle sue istituzioni quali grandezze sottratte alla critica, valide e utili per tutti senza che debbano esse stesse modificarsi.

Dalla sintesi risulta ancora una volta che le critiche menzionate hanno una cosa in comune: analizzano convenzioni e condizioni sociali apparentemente ovvie e contesti apparentemente neutri come quelli delle istituzioni culturali ed educative come basi per la riproduzione di disuguaglianza e la produzione di norme sociali. Si tratta quindi, come spiegato al termine del testo 1.PS, di obiezioni di critica dell’egemonia.

Alcune linee guida per le alternative d’azione risultanti ai fini dello spostamento e della trasformazione dell’ordine egemonico ai sensi di una mediazione d’arte come prassi critica e di trasformazione sono già state tracciate da diverse autrici e diversi autori attivi sia nell’elaborazione teorica sia nel lavoro di mediazione (Sternfeld 2005; Sturm 2002; Mörsch et al. 2009). Esse saranno qui riassunte come le critiche summenzionate.

La mediazione culturale come prassi di critica (dell’egemonia) pone in evidenza il potenziale dell’esperienza della differenza nell’educare con arte e contrappone al pensiero dell’efficienza una rivalutazione del fallimento, di gesti di ricerca, di processi aperti e di inutilità offensiva come momenti di disturbo. Anziché offrire agli individui la volontà per una permanente ottimizzazione personale come migliore opzione di sopravvivenza, propone spazi in cui è possibile – oltre al divertimento, al piacere, alla voglia di fare, all’allenamento della percezione e alla trasmissione di sapere specifico – anche identificare e affrontare problemi. In cui il dissenso è percepito in modo costruttivo.

In cui attributi positivi apparentemente così ovvi come l’amore per l’arte e la volontà di lavorare vengono esaminati criticamente e può svilupparsi una discussione su cosa e per chi in fin dei conti è una buona vita e come si può realizzare la buona vita per tutti. In cui si tratta meno di un apprendimento permanente, a vita, quanto invece di un apprendimento che prolunga la vita.

Essa dischiude spazi d’azione in cui nessuna persona è discriminata per età, provenienza, aspetto, disposizioni fisiche, sesso o orientamento sessuale, in cui non viene prodotto o assunto quale presupposto un presunto sapere su altri ma in cui invece si agisce in un’ottica partigiana ai sensi di una riflessività pedagogica comunicativa; in cui è quindi anche necessario riflettere sulla propria condizione privilegiata come mediatrice o mediatore culturale, contrastarla e impegnarla strategicamente per una maggiore giustizia. Poiché nonostante la possibile precarietà materiale e la possibile debolezza della posizione nel contesto istituzionale, per la maggior parte delle mediatrici e dei mediatori culturali sussistono numerosi privilegi come il giusto colore della pelle, l’accesso alle giuste conoscenze e alla giusta cultura (Castro Varela, Dhawan 2009).

Siffatti spazi della mediazione culturale presentano come caratteristiche costitutive una riflessività nei confronti del concetto di cultura e una resistenza attiva contro la culturalizzazione dei conflitti e dei problemi politici, così come una riflessività nei confronti di valori e miti legati all’«arte». Il lavoro di mediazione serve quindi anche allo scambio sulla modalità di funzionamento delle arti e dei loro  sistemi parziali. Anziché «promozione dei talenti» e «autorealizzazione» si cerca di realizzare in essi una mediazione trasparente di strumenti per l’apprendimento. Questo tentativo si basa su una riflessione sui propri punti di partenza e sulle proprie condizioni, nonché sul potenziale delle arti (anche collettivamente e al di là delle frontiere linguistiche e conoscitive) di progettare, intervenire, reinterpretare e trasformare. E, per chiudere il cerchio, questo lavoro si basa sulle particolari capacità delle arti di dare a tutto questo ogni volta forme che rimangono dotate di una polivalenza di significati e che in una situazione favorevole si sottraggono alla strumentalizzazione.

Come accennato sopra, il tentativo di porre in atto la mediazione culturale come prassi critica, è un’operazione per molti versi destabilizzante. Specialmente in un campo che attualmente è ancora fortemente impegnato nella lotta contro la svalutazione, contro la propria precarietà e per l’autolegittimazione, questo approccio genera ulteriori ostacoli. Esso significa, oltre al modo dell’autointerrogazione permanente, di incontrare anche fra le colleghe e i colleghi del proprio campo di lavoro non solo ampi consensi. D’altra parte, non esiste pressoché nessuna storia documentata cui una mediazione culturale critica potrebbe naturalmente fare riferimento. Fino a non molto tempo fa, la mediazione culturale era un campo esclusivamente pratico, motivo per cui la storiografia e l’elaborazione teorica sono piuttosto recenti.

Ciò nonostante sta attualmente crescendo il numero di mediatrici e mediatori culturali interessati allo sviluppo di una prassi critica nelle molteplici possibili sfaccettature che emergono dalle proposte sopra menzionate e che sviluppano modalità per affrontare il rapporto conflittuale sopra menzionato tra un atteggiamento di critica dell’egemonia e la necessità di legittimazioni. Queste modalità possono essere descritte come due strategie tra loro collegate: la formazione di reti e quindi rafforzamento e ulteriore sviluppo della propria posizione mediante una relazione collettiva nonché la lotta inerente a ogni critica dell’egemonia per affermare la propria egemonia e quindi la formazione di alleanze che ciò comporta. L’interrelazione tra mediatrici e mediatori culturali interessati a una prassi critica avviene attualmente molto frequentemente. A tal fine sono di fondamentale importanza i simposi e soprattutto le serie di simposi perché consentono di incontrarsi più volte e di proseguire le discussioni. Così per esempio la serie  Educational Turn della rete  schnittpunkt. ausstellungstheorie und praxis [Interfaccia teoria espositiva e prassi]3, che in tre anni consecutivi ha permesso l’incontro e la discussione tra attrici e attori molto diverse_i interessate_i alla svolta educativa (Jaschke, Sternfeld 2012). Una pratica simile è risultata dalla serie di simposi «practicas dialogicas» (Rodrigo 2007), concepita da Javier Rodrigo e Aida Sanchez de Serdio Martins in Spagna, che ha avuto luogo anch’essa a scadenza annuale in diversi musei spagnoli offrendo un importante contributo alla creazione di una rete informale di mediatrici e mediatori culturali di orientamento critico. Attualmente è in gestazione sotto il nome «Another Roadmap» una rete internazionale il cui motore è costituito dalla lettura critica della Road Map dell’UNESCO per l’educazione artistica. La Road Map dell’UNESCO è un documento di sensibilizzazione volto alla realizzazione della mediazione culturale (soprattutto a livello scolastico, ma anche extrascolastico) in tutti i Paesi del mondo. Questo documento mostra chiaramente il dilemma di una mediazione culturale critica dell’egemonia. Da un lato quest’iniziativa va apprezzata anche dalla sua prospettiva. Dall’alto, le legittimazioni esposte nel documento danno adito a tutte le critiche menzionate in questo capitolo. Ad esempio, il fatto che i concetti di «cultura» ed «educazione» utilizzati nello stesso siano di impronta occidentale e siano universalizzati dal documento senza riflettere la loro storia coloniale; che l’educazione nelle arti debba servire soprattutto a produrre forza-lavoro flessibile e a mitigare le tensioni sociali; che predomini un concetto di produzione artistica indigena che vuole conservare questa produzione soprattutto come «tradizioni» e non la intende come parte della produzione culturale contemporanea; che si palesi un concetto conservatore della famiglia (e di una narrazione ad esso legata della perdita di valori morali) che non corrisponde alla pluralità di forme sociali esistenti e frequentemente vissute. Come ogni risultato di processi di negoziazione internazionale, anche la Road Map dell’UNESCO per l’educazione artistica rispecchia in modo abbastanza scontato per molteplici versi l’ordine egemonico e non rappresenta quindi quelle posizioni che fondano il proprio lavoro proprio su controprogetti a quest’ordine. Parallelamente però il documento ha avuto l’effetto di promuovere tra le attrici e gli attori della mediazione culturale la considerazione di se stesse_i come un campo professionale attivo a livello globale. La rete internazionale dal nome provvisorio  Another Roadmap for Arts Education sviluppa ricerche e progetti nel confronto con il documento dell’UNESCO e dichiarazioni analoghe. Da un lato, si tratta di elaborare motivazioni alternative per la mediazione culturale sulla scorta d’esempi. In secondo luogo, si vuole iniziare una storiografia della mediazione culturale che consideri la sua dimensione globale, il trasferimento di concetti d’arte e d’educazione nel colonialismo così come le loro rielaborazioni in contesti postcoloniali. Questo non però per collocarsi al di là delle contraddizioni, bensì per produrre dall’interno un contributo attivo e in una prospettiva critica ai dibattiti attuali sulle ragioni per una mediazione culturale.

Che la critica dell’egemonia non avvenga al di fuori delle sue condizioni, risulta su un altro piano una ricerca realizzata nel 2012 sui modelli d’impresa di mediatrici e mediatori indipendenti in Austria, Germania e Svizzera. Contrariamente all’ipotesi di partenza, l’autrice giunge alla conclusione che le mediatrici e i mediatori con un orientamento critico e artistico operino con maggiore successo economico di coloro che si posizionano in modo affermativo rispetto al campo artistico e la cui offerta si colloca piuttosto nel campo delle prestazioni di servizio ( Pütz 2012). Ciò va ricondotto tra l’altro alle loro ampie conoscenze sistemiche acquisite in virtù dell’approccio critico che possono investire strategicamente nell’acquisizione di progetti. Il fatto che spesso e volentieri le committenti e i committenti siano prevalentemente organizzazioni pubbliche della cultura e dell’educazione, potrebbe essere considerato come un ulteriore indizio del fatto che le proposte d’azione di una mediazione culturale critica sono assurte, perlomeno in diversi luoghi, a mainstream.

1 Com’è il caso per l’autrice di questo testo, o per protagoniste e protagonisti come per es. Nora Landkammer, Nanna Lüth, Javier Rodrigo, Nora Sternfeld, Rahel Puffert, Stephan Fürstenberg, Janna Graham e molti altri che partecipano attivamente all’istituzione del campo di lavoro mediazione culturale e che parallelamente contribuiscono alla sua discussione critica mediante testi analitici e programmatici.

2 Dato che nel seguito si tratta del riassunto di posizioni già esposte, le relative indicazioni bibliografiche e i rimandi ad altri capitoli non sono menzionati un’altra volta al fine di facilitare la lettura. Solo quando vengono toccati aspetti nuovi è citata la relativa letteratura.

3 «schnittpunkt. ausstellungstheorie & praxis è una rete transnazionale aperta per attrici e attori, interessate e interessati del campo espositivo e museale. Come piattaforma esterna all’esercizio istituzionalizzato, «schnittpunkt» offre ai suoi membri l’opportunità di uno scambio interdisciplinare, informazione e discussione. Tra i suoi obiettivi, vi è la visibilità di modelli di interpretazione e d’azione istituzionali come determinati culturalmente e sociopoliticamente così come la creazione di un pubblico espositivo e museale critico-riflessivo.» Autopresentazione di schnittpunkt in Jaschke, Sternfeld 2012.

Bibliografia e link

Il testo si basa in parte sui seguenti contributi già pubblicati:

Altri riferimenti bibliografici:

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