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Lavorare in rapporti di tensione 5:
Tra mediazione, arte, decostruzione e trasformazione

«It’s not a question of being against the institution: We are the institution. It’s a question of what kind of institution we are, what kind of values we institutionalise, what forms of practice we reward, and what kinds of rewards we aspire to. Because the institution of art is internalised, embodied, and performed by individuals, these are the questions that institutional critique demands we ask, above all, of ourselves.» (Fraser 2005)

La mediazione culturale come  decostruzione (Sturm 2001) con accessi partecipatori ed artistici nonché con l’intenzione di analizzare tramite la mediazione le logiche di potere in istituzioni culturali e, se del caso, di agire su di esse con volontà di trasformazione, è una manifestazione relativamente rara, ma non nuovissima. Tra i suoi rappresentanti si possono menzionare in Germania il gruppo  Kunstcoop© presso la Neue Gesellschaft für Bildende Kunst Berlino (NGBK 2001), attivo dalla fine degli anni 1990 e in Austria il gruppo «Stördienst» presso il Museum für Moderne Kunst; attualmente in Svizzera il collettivo  microsillons, in Austria il Büro  trafo.K, o in Spagna il Duo  Transductores. La caratteristica comune di queste organizzazioni è lo sviluppo di una mediazione d’arte specifica rispetto al contesto tra agire pedagogico, politico e artistico, in un rapporto di scambio e di attrito con istituzioni e con disparati gruppi d’interesse. Un riferimento importante per la loro prassi sono i movimenti artistici che situano il proprio lavoro nello stesso ambito interlocutorio. Così per esempio l’inglese  Artist Placement Group degli anni 1960, che a sua volta si riferiva agli esempi dell’avanguardia russa all’inizio del 20° secolo, in cui le artiste e gli artisti entravano in cooperazione con operai dei campi e delle officine. (Rollig 2002, p. 128 seg.). Verso gli anni 1990 si è sviluppato con il paradigma partecipativo della New Genre Public Art (Jacob 1995; Lacey 1995; sulla riflessione nell’area germanofona Babias 1995) un campo d’intervento internazionale in cui arte, lavoro pedagogico e lavoro di politica sociale e rappresentativa non solo sono difficili da distinguere tra loro, ma in cui il superamento dei loro limiti è prassi programmatica. Il movimento qui delineato nella mediazione artistica si è formato negli anni 1990, non da ultimo come delimitazione da una pedagogia museale e artistica che argomentava in larga misura in base alla psicologia dello sviluppo e a teorie della creatività. La critica è rivolta tra l’altro al fatto che un approccio che cerca esclusivamente di entusiasmare e commuovere non rende giustizia né all’arte, né alle partecipanti e ai partecipanti in quanto appiattirebbe le loro resistenze produttive e i potenziali di conoscenza. Un altro elemento di critica sono i  meccanismi di esclusione connessi a un approccio che mira unicamente allo sviluppo individuale.

A partire dagli anni ’90, gli impulsi che ponevano in risalto da un lato l’autonomia e la specificità artistica della mediazione e dall’altro rilevavano i potenziali educativi della produzione artistica contemporanea non provenivano più solo dall’arte, ma anche dalla stessa pedagogia dell’arte tedesca. L’approccio della «produzione estetica della differenza» (Maset 1995), per esempio, colloca la mediazione in prossimità della tradizione artistica del pensiero non strumentale e intende la pedagogia artistica come una possibile forma di prassi dell’arte. Qui la mediazione artistica diventa istanza resistente contro la tendenza a considerarla una prestazione di servizio capitalizzabile – contro la trasmissione irriflessa di conoscenze specifiche, esattamente come contro l’ottimizzazione del comportamento sociale degli attori ad essa partecipanti.

Una terza fonte d’impulsi per una mediazione dell’arte con funzione decostruttiva è la museologia critica e la New Art History. Queste interrogano dagli anni 1970 il sapere canonico rappresentato dai musei e le modalità di trasmissione di tale sapere sui rapporti di potere. La disposizione degli oggetti, l’ordinamento degli spazi e le regole di comportamento in musei sono letti con quest’approccio che ricorre tra l’altro alle analisi sulla produzione di disuguaglianza sociale di Pierre Bourdieu (Bourdieu 1982), ai lavori di Michel Foucault sul potere, il sapere e il disciplinamento (Bennett 1995; Duncan 1996) nonché alla teoria dei segni (Barthes 2003; Barthes 1989) come testi da decostruire.1 Le loro economie, i loro  codici etnicizzanti e sessuali nonché le condizioni storiche e sociali della loro produzione sono quindi analizzati con la consapevolezza che non può esistere un insieme di strumenti critici conclusivo, ma che ogni lettura produce a sua volta nuovi testi. Un convegno alla Tate Britain del 1992 dal titolo «Gallery Education and The New Art History» (Vincentelli 1992) si era posto come domanda centrale: «How can gallery educators involve themselves in analysing or deconstructing their own gallery’s practice?» La storica dell’arte Frances Borzello aveva rilevato nella sua relazione che una particolare sfida e capacità della mediazione artistica risiederebbe nel fatto che, di fronte alla materialità delle opere analizzate criticamente dalla New Art History e dei locali della rappresentazione museale, non possa rifugiarsi in contesti linguistici accademici. Al contrario, nel rapporto con il pubblico e con il materiale deve sviluppare linguaggi tendenti a democratizzare il discorso – anch’esso escludente – della New Art History (Borzello 1992, p. 10). In tal modo Borzello ha decostruito davanti a un uditorio di pedagogia museale i propri contesti scientifici, argomentando implicitamente contro la posizione tradizionalmente svalorizzata (constatabile ancora oggi) del lavoro di mediazione. Contro lo stereotipo di una mediazione d’arte che comporterebbe necessariamente una semplificazione dei contenuti, rilevava la maggiore complessità in seguito al requisito del cambio di registro linguistico. Questa lettura è già informata dall’ambizione avanzata fin dagli anni 1980 nella New Art History (Borzello, Rees 1986) e dalla New Museology (Vergo 1989; Hauenschild 1988) di produrre, mediante il coinvolgimento attivo di gruppi fino ad allora in larga misura esclusi dai musei, contronarrazioni (Giroux 1994) e di rendere il museo un luogo di interazione e di dibattito.

Nel 21° secolo, le sovrapposizioni di campo discorsive e pratiche summenzionate tra prassi di mediazione, arte, scienza dell’arte e museologia hanno condotto a un  Educational Turn ( Rogoff 2008; O’Neill, Wilson 2010) nell’ambito espositivo, con un crescente interesse di curatrici e curatori di mostre, artiste e artisti a formati e interrogativi pedagogici. Quest’interesse è stato alimentato anche dalla critica alla trasformazione orientata alle esigenze del mercato del sistema educativo europeo, segnatamente nel seguito della  strategia di Lisbona dell’UE varata nel 2000. I progetti e i testi nel quadro della svolta educativa sono quindi spesso legati a una critica dell’economicizzazione del sapere e in particolare dell’educazione e della formazione artistiche, nonché alla ricerca di spazi e pratiche educative alternative. Di conseguenza, è particolarmente elevato l’interesse per gli approcci della pedagogia critica con uno spettro di riferimenti assai ampio che va da Paulo Freire (Freire 1973) a Bell Hooks (Hooks 2003) fino a Jacques Rancière (Rancière 2007). Al livello pratico, la svolta educativa si articola per esempio in formati pedagogici come programmi espositivi che dichiarano il pubblico soggetto partecipante (vedi per esempio il progetto  Wide Open School della Hayward Gallery a Londra nell’estate del 20122,), nella riattualizzazione di forme storiche come i Singspiele di Brecht e Weill, (cfr. per es. gli allestimenti del Collettivo  Chto delat? di San Pietroburgo, nell’intreccio della produzione di materiali artistici e didattici (vedi in proposito i video e cartoni scaricabili del collettivo  Pinky Show, utilizzati tra l’altro da docenti per l’insegnamento), in spazi autogestiti di educazione artistica (per esempio la  parallel school of art; nella  Free/slow University of Warsaw o in progetti artistici che analizzano le condizioni d’apprendimento (per es. il lavoro  Hidden Curriculum dell’artista Annette Krauss, in collaborazione con allieve e allievi delle scuole dei Paesi Bassi (Krauss, s. d.).

Tra i contenuti, le intenzioni e le pratiche di una mediazione artistica a orientamento  decostruttivo o anche trasformativo da un lato e gli interrogativi artistici e curatoriali posti nel quadro della svolta educativa dall’altro, vi sono numerose sovrapposizioni. Ciò non toglie, tuttavia, che da parte delle artiste, degli artisti, delle curatrici e dei curatori il lavoro compiuto nella mediazione e il sapere ivi prodotto siano stati finora raramente presi in considerazione ( Sternfeld 2010). In questa ignoranza si rispecchia una tradizionale gerarchia tra i campi arte ed educazione. C’è da sperare che in futuro si instauri in un crescente numero di luoghi una cooperazione. In effetti, esistono ambiti interlocutori corrispondenti, da trattare di concerto, e con ciò possibilità di collegamenti potenzialmente fertili tra le produzioni del sapere curatoriali, artistiche e della mediazione. Uno di essi concerne la  tensione tra la produzione di esclusioni e il paternalismo di politiche mirate d’invito e di inclusione. Qui sarebbe assai utile un’alleanza per una riflessione comune e lo sviluppo concertato di possibilità d’agire a partire dalle differenti prospettive professionali. Lo stesso vale per un altro ambito di conflitti, che concerne il desiderio di cooperazione alla pari. Quando un’istituzione culturale si apre alla cooperazione,per esempio con una piccola istituzione educativa, lo fa a partire da una posizione di potere. Tale posizione non sempre è basata su aspetti materiali, ma si fonda in prima linea sul  capitale culturale e sociale. È quindi necessario un lavoro attivo per stabilire rapporti alla pari che va affrontato dall’istituzione in cooperazione con il relativo partner. I tre ambiti professionali, la cura/l’organizzazione del programma, la produzione artistica orientata alla partecipazione e all’educazione e la mediazione condividono esperienze come quella per cui coloro che partecipano attivamente a un progetto possono facilmente essere degradati a «materiale per progetti». Oppure che una situazione d’interessi equilibrati si tramuti repentinamente nello sfruttamento di forza lavoro con l’argomento della ricompensa simbolica. Una riflessione in una prospettiva multipla e lo sviluppo di opzioni d’azione potrebbero contribuire a facilitare l’autoriflessività e l’adozione di decisioni consapevoli e motivate.

Alla riflessione sull’azione in situazioni di potere è collegato un terzo ambito di tensione che concerne la questione delle estetiche di progetti al punto d’incontro tra arte ed educazione. Mentre le istituzioni culturali coltivano una raffinata sensibilità nei confronti della forma – secondo l’istituzione, «buona» o piuttosto «audace» – le autorappresentazioni delle e dei partecipanti e partner di cooperazione o i prodotti creati potrebbero non sempre corrispondere a tali pretese. Qui avviene il confronto tra necessità, concetti di qualità e interessi diversi relativi alle modalità di rappresentazione. Da parte istituzionale, la risposta a questa tensione si configurava finora spesso come fagocitazione o esclusione: o un progetto si adegua ai parametri formali riconosciuti nel rispettivo ambito artistico o non diventa visibile o semplicemente non avviene. Una mediazione autoriflessiva cerca, per contro, di considerare opportunamente le articolazioni estetiche di tutti i partecipanti. Talvolta, questo può però ripercuotersi negativamente sulla realizzazione formale informata ed elaborata della visibilità che a sua volta potrebbe essere utile in molti casi al progetto e ai suoi attori. Anche in quest’esercizio d’equilibrismo e nei connessi processi di negoziazione, uno scambio tra mediazione, prassi curatoriale e prassi artistica potrebbe portare a risultati interessanti. Un esempio tratto dalla prassi di mediazione e cooperazione tra un gruppo autoorganizzato e una grande istituzione espositiva può evidenziare possibili approcci agli ambiti critici summenzionati.

Negli anni 2009 e 2010 ha avuto luogo in Svizzera il progetto di ricerca e sviluppo «Kunstvermittlung in Transformation» [Mediazione d’arte in trasformazione] (Settele et al. 2012). Nel progetto quattro accademie d’arte hanno cooperato con sei musei per un ulteriore sviluppo della mediazione nei musei tramite la ricerca. L’Institute for Art Education (IAE) della Zürcher Hochschule der Künste ha cooperato in tale contesto con il Museum für Gestaltung [Museo di arti applicate] di Zurigo sviluppando diversi progetti pilota. Uno di essi consisteva nella cooperazione di Nora Landkammer, collaboratrice scientifica allo IAE, con l’associazione «Bildung für Alle» [Formazione per tutti] e il suo progetto di  Scuola autonoma, ( Text 4.4).3 DLa Scuola autonoma propone corsi di tedesco e altre attività per persone che abitano a Zurigo e sono escluse dal sistema educativo formale. Nora Landkammer ha contattato l’organizzazione in relazione al piano di sviluppo di un progetto di mediazione in riferimento all’esposizione  Global Design del Museum für Gestaltung che si confrontava con il tema degli effetti della globalizzazione sulle arti applicate e il design. L’esposizione doveva offrire lo spunto per un confronto su globalizzazione e visualità in cui si sarebbe sviluppato un processo d’apprendimento che avrebbe coinvolto tutti, museo compreso. Già in virtù dell’invito rivolto da un istituto di ricerca aggregato a una grande scuola universitaria d’arte a una piccola organizzazione autonoma basata sul volontariato e composta da attori migranti e non migranti, questo progetto presentava la menzionata contraddizione di voler stabilire parità partendo da una posizione di potere. Nel caso concreto, questa contraddizione è diventata gestibile (non risolvibile) da un lato per il fatto che il gruppo agiva con grande consapevolezza in relazione alle asimmetrie di potere e lo stesso vale per la mediatrice artistica. Fin dall’inizio il gruppo ha posto la questione della distribuzione dei ruoli nel progetto e in seguito di chi approfitta e come della collaborazione. Il gruppo non intendeva lasciarsi strumentalizzare per scopi di ricerca e nemmeno voleva fornire un  plusvalore simbolico al museo. In tutte le fasi della collaborazione si è provveduto scrupolosamente affinché gli interessi di tutte le partecipanti e di tutti i partecipanti fossero articolati apertamente, costantemente riverificati e – ai sensi di un «equilibrio minimo» – mantenuti senza con ciò negare il fatto della distribuzione diseguale delle risorse. È stato così deciso per esempio che il progetto fosse diretto collegialmente dalla mediatrice d’arte e da un membro del gruppo. In tale contesto è stato importante anche il fatto che il concreto procedimento e i contenuti nel progetto non siano stati prefabbricati dalla mediatrice ma sviluppati assieme nel gruppo. Di conseguenza, al progetto è stato dato il nome molto aperto di «Atelier» – la designazione per un laboratorio in cui può verificarsi l’inatteso e l’imprevisto in diverse forme di lavoro. Come prima attività il gruppo, composto da 15 interessati che imparavano il tedesco nella Scuola autonoma, ha visitato più volte l’esposizione e ne ha discusso con la curatrice responsabile. In occasione di queste visite è stata articolata la prima contraddizione: l’indirizzamento «noi» nei testi della mostra e nel catalogo si rivolgeva esclusivamente ai membri della società relativamente benestanti e soprattutto legalizzati – ad esempio nell’affermazione che oggi è normale pagare tutto con la carta di credito. Lo stesso vale per gli oggetti esposti nella mostra, per i quali il gruppo ha immediatamente notato che gran parte sarebbe per loro un bene irraggiungibile o inaccessibile in virtù del loro statuto di soggiorno. L’invito rivolto a un gruppo a essere presente nella mostra e lavorare con contenuti non presentati o pensati per esso ha prodotto il  rapporto conflittuale tra paternalismo e apertura dell’istituzione. Per poterlo affrontare si è rinunciato a definire a priori possibili interessi del gruppo ai sensi dell’«indirizzamento a un gruppo mirato». Invece è stato aperto uno spazio di discussione per elaborare di concerto nel gruppo quali potrebbero essere le proprie posizioni e i propri interessi rispetto al museo e all’esposizione. Questo significava intendere il progetto meno come  partecipazione a quanto invece come  collaborazione con l’istituzione – con un corrispondente esito aperto per quanto concerne i risultati. In seguito alle visite dell’esposizione, il gruppo si è occupato in diversi workshop di mezzi visuali e ha sviluppato avvicinamenti allo spazio urbano tramite la fotocamera, nell’ottica della globalizzazione e lungo temi che strutturavano anche la mostra: mobilità, comunicazione, economia e controllo. Nel corso di queste esplorazioni, il gruppo ha deciso di trattare i quattro temi dal punto di vista di chi vive nell’illegalità a Zurigo e intende rimanervi. Per il lavoro nello spazio urbano è stato necessario un’altra volta da parte dell’istituzione lavorare attivamente per stabilire parità, ovvero la ridistribuzione di risorse. Le fotocamere sono state prestate alle e ai partecipanti all’atelier dall’IAE e accompagnate con una dichiarazione affinché nessuna delle persone sans-papier, ossia senza titolo di soggiorno valido, venisse sospettata in caso di un controllo di polizia di averla rubata. Il collegio di direzione ha suggerito, dopo alcuni incontri, di produrre una pubblicazione che permettesse ad altre persone nella stessa situazione di orientarsi a Zurigo: un «Bleibeführer» [Guida per rimanere] – in replica ironica alle onnipresenti «guide turistiche». I mesi successivi sono stati investiti nell’elaborazione collettiva di questa pubblicazione. In questa fase è stato possibile lavorare nel terzo ambito conflittuale menzionato: quello risultante da differenti estetiche. In effetti, la questione dell’estetica della Guida, della sua forma, del suo aspetto non era facile da risolvere. I membri del gruppo provenivano da diversi strati e regioni geopolitiche e avevano accessi eterogenei alla resa formale. A questo punto la mediatrice è intervenuta maggiormente rispetto al resto del processo perché percepiva una sua plurima responsabilità rispetto al prodotto del progetto: nei confronti del museo, dell’istituto di ricerca e non da ultimo rispetto alle proprie esigenze formali e al progetto di mediazione stesso. A questo punto ha apportato anche la sua competenza creativa. Anche se tutte le decisioni in relazione alla scelta delle immagini e dei testi sono state discusse e prese nel collettivo, il  Bleibeführer ha ottenuto un design grafico omogeneo e conforme agli standard – e alle convenzioni – attuali. In effetti, la Guida è stata accettata come prodotto dal Museo e messa in vendita assieme ad altri articoli nel negozio del museo. Parallelamente ha suscitato una notevole richiesta nella città di Zurigo, in particolare da parte di organizzazioni che operano nel settore della migrazione. L’«aspetto professionale» della pubblicazione ha quindi sortito un molteplice vantaggio tattico, tant’è vero che la Guida è stata ripubblicata in seconda edizione (Landkammer, Polania 2012).

In questo progetto, le  funzioni della mediazione nella prospettiva del museo sono molteplici. Esse comprendono una dimensione riproduttiva, in quanto almeno temporaneamente sono stati raggiunti nuovi utenti per il museo. Nondimeno, quest’aspetto passa in secondo piano rispetto alla funzione decostruttiva della mediazione. Da un lato, quest’ultima concerne la messa in discussione degli indirizzamenti operati implicitamente dal museo e dall’esposizione visitata «Global Design»– non solo a livello discorsivo, ma fin dalla presenza di persone che sono escluse dalla maggior parte delle risorse sociali in seguito al  razzismo quotidiano e strutturale. Dall’altro, perché con il «Bleibeführer» è nato un ulteriore contributo che si è allacciato all’esistente come proposta per un’interpretazione del tema «Global Design» spostandolo al contempo nel suo significato. Inoltre, il progetto comprende anche una dimensione trasformativa: con la costituzione di un gruppo con attività al di là dei precedenti formati della mediazione museale, mediante l’apertura della mediazione come spazio per l’agire sociopolitico e per la domanda della Guida da parte di un altro campo dell’agire sociale. In questo quadro il museo si è trasformato in una «Institution of Critique», come la rivendica l’artista Andrea Fraser nella citazione introduttiva a questo testo come conseguenza di trenta anni di critica istituzionale nell’arte. A medio termine il progetto «mediazione d’arte in trasformazione», in cui era inserito l’«Atelier», ha contribuito a una trasformazione visibile del museo. Nel 2012, vi è stata istituita la funzione di «curatrice della mediazione». Quest’ultimo risultato – è questa la tesi dell’autrice – è anch’esso un sintomo della svolta educativa sopra descritta: la valorizzazione sovente constatabile della mediazione nelle istituzioni culturali. Questa valorizzazione è di importanza centrale per lo sviluppo di quest’ambito di lavoro. Infatti, se si vogliono adempiere le attese articolate dai dibattiti emersi da questa svolta, è in ogni caso importante, nell’attuazione di progetti di mediazione, una competenza pedagogica nel senso di una riflessività pedagogica che non è apportata automaticamente né dalle attrici e dagli attori dell’arte né dalle organizzatrici e dagli organizzatori del programma. Resta da vedere se l’educational turn avrà la forza di imporsi come cambiamento di paradigma portando a una cooperazione paritaria tra conoscenze artistiche, curatoriali e pedagogiche.

1 «[...] in un’opposizione filosofica classica, non ci s’imbatte mai nella coesistenza pacifica di un vis-à-vis, bensì in una gerarchia violenta. Uno dei due termini comanda l’altro […] e sta più in alto di lui. Decostruire l’opposizione equivale allora, anzitutto, a rovesciare in un determinato momento la gerarchia. [...] Chi pratica la decostruzione lavora all’interno del sistema al fine di lacerarlo» (Culler 1988, p. 95) [Culler, J., Sulla decostruzione, Milano: Bompiani, 1988. (Derrida, J., Posizioni, Verona: Bertani, 1975, p. 76)]

2 Nel testo d’annuncio sul sito web del Southbank Centre si poteva leggere: «This summer, […], the Hayward Gallery transforms into Wide Open School. An experiment in public learning, Wide Open School offers a programme devised and fuelled by the imaginations of more than 80 artists from over 40 different countries. Intended as a meeting place for people who love learning but don’t necessarily like being taught, Wide Open School presents the opportunity for people of all ages and walks of life to explore different ways of learning about a wide variety of subjects, alongside leading artists».

3 Ringrazio qui la collega Nora Landkammer per aver messo a disposizione gli appunti scritti su cui si basa la mia descrizione del progetto, seppur necessariamente ridotta rispetto alla sua complessità.

Bibliografia e link

Il testo si basa in parte sui seguenti contributi già pubblicati:

Altri riferimenti bibliografici:

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