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Lavorare in rapporti di tensione 4:
Esclusioni per forme d’apprendimento aperte

«Di conseguenza, determinati modi di considerare l’arte (…) sono tacitamente presupposti, e inconsciamente riconosciuti e promossi con entusiasmo da coloro che già li posseggono. La trasmissione del sapere, spesso necessario per la comprensione, nonché la trasmissione dei mezzi e delle tecniche per acquisirlo, restano spesso esclusi, e coloro che non lo possiedono già inconsciamente e proprio per questo solitamente non osano chiederlo, restano discriminati nel processo pedagogico.» (Sternfeld 2005)

La moderna psicologia dell’apprendimento definisce l’apprendimento una trasformazione e l’acquisizione di modalità di comportamento e disposizioni mediante l’esperienza e/o l’esercitazione. Questo concetto d’apprendimento va oltre l’idea comune di istruzione scolastica e trasmissione mirata di contenuti. Ogni trasformazione durevole del comportamento e dell’atteggiamento è considerata basata sull’apprendimento, laddove non sia da ricondurre all’invecchiamento fisico, a malattia o a cause simili: «Quindi, qui parliamo anche di apprendimento della paura e della sicurezza, dell’acquisizione di preferenze e di avversioni, dello sviluppo di abitudini, dell’abilitazione all’agire pianificato e al pensiero volto alla soluzione dei problemi.» (Edelmann 1993, p. 5)

Il concetto attualmente predominante dei processi d’apprendimento si basa su teorie dell’apprendimento costruttiviste (Reich 2006; Harms, Krombass 2008). Secondo tali teorie, l’apprendimento è meno un risultato dell’istruzione quanto un processo autodeterminato della costruzione di significato. L’acquisizione di conoscenze e competenze è quindi indissolubilmente legata alla produzione di significato. Si tratta di un processo circolare basato sull’agire attivo: l’esperienza concreta conduce alla riflessione e allo sviluppo di concetti astratti. L’impiego dei concetti genera a sua volta esperienza, e il ciclo riprende da capo (Kolb, Fry 1975).1 Ciò avviene sia individualmente, sia tramite interazioni (apprendimento co-costruttivista). Le relazioni sociali e le emozioni costituiscono fattori importanti del processo d’apprendimento. Gi studiosi dell’apprendimento John Howard Falk e Lynn Dierking concepiscono l’apprendimento come un dialogo con l’ambiente con l’obiettivo dell’orientamento. Questo dialogo è caratterizzato dall’interazione di contesti personali, socioculturali e fisici nonché dalla sua rispettiva temporalità (apprendimento contestuale). Apprendimento, conoscenza ed esperienza risultano quindi sempre vincolati al luogo, ossia situati. I risultati dei processi d’apprendimento dipendono dalle condizioni e dalle premesse in cui avvengono. Da questa prospettiva la creazione di contesti che consentono esperienze e relazioni complesse, acquisisce importanza rispetto alla questione dei contenuti da trasmettere. Inoltre, anche il sapere apportato dai discenti in una data situazione è valutato altrettanto rilevante delle conoscenze che i docenti hanno previsto per la trasmissione. La situazione d’apprendimento dovrebbe pertanto, in una prospettiva costruttivista, essere basata sulla collaborazione e la partecipazione. Gli insegnanti si considerano più accompagnatrici e accompagnatori che istruttori e sempre anche se stessi come discenti. Aumenta anche l’indeterminazione dei criteri di «giusto» e «sbagliato» – gli obiettivi mancati e imprevisti non sono considerati negativi o superflui ma esperienze che a loro volta conducono a nuovi movimenti d’apprendimento (Spychiger 2008).

In questo approccio sono attribuiti particolari potenziali alla mediazione culturale, ai suoi attori, ai suoi luoghi e ai suoi contenuti. Falk e Dierking ad esempio identificano nel museo il luogo ideale per metodi d’apprendimento aperti e incentrati sull’autodeterminazione, l’esplorazione e l’attività autonoma (Falk, Dierking 2000). Lo psicologo Howard Gardner, autore del concetto delle intelligenze multiple assai influente nell’ambito della mediazione culturale (Gardner 2002), riscontra nell’occupazione con l’arte l’opportunità di promuovere tipi d’apprendimento diversi dall’intelligenza linguistica e matematica (vedi anche il  Project Zero della Harvard University, dove si studia fin dal 1967 l’apprendimento nelle arti. In tempi più recenti sono stati pubblicati studi sulla logica dell’azione e l’identità di artiste e artisti che lavorano nella mediazione ( Pringle 2002;  Pringle 2009). Queste ricerche dimostrano corrispondenze tra una concezione costruttivista dell’apprendimento e atteggiamenti e metodi nella produzione artistica contemporanea. Le artiste e gli artisti lavorano come «pratiche_i riflessive_i» (Schoen 1983; Schoen 1993 [Schön, D.A. (1993) Il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, Bari: Dedalo, 1993]) sulla base dell’esperienza e in modo tentativo, esplorativo. Il loro lavoro ha oggi raramente una vocazione universalista, si considera di regola situato e dipendente dal contesto, analizza criticamente concezioni apparentemente stabilite di giusto e sbagliato e comprende il fallimento e il verificarsi di imprevisti come un processo fertile, talvolta anche come condizione per il processo creativo (Schmücker 2003). In un loro testo del 2006, le due artiste Seraphina Lenz e Stella Geppert cercano di sistematizzare in base alle loro esperienze in un progetto modello sul lavoro di mediazione artistica le differenze tra apprendimento artistico e scolastico:2

Un processo artistico

Processi d’apprendimento nell’insegnamento artistico

Le contrapposizioni di questo tipo sono assai illustrative, ma funzionano solo al prezzo di massicce riduzioni di contenuto. Si potrebbero così evocare anche i vincoli economici e cronologici del lavoro artistico a progetto oppure, d’altro canto, la maggiore predisposizione all’iniziazione di processi di ricerca aperti della lunga durata e della continuità dell’apprendimento scolastico. Di converso, va detto che anche nella scuola la pedagogia di progetto e l’«apprendimento autoorganizzato» fanno ormai parte del repertorio, se non addirittura dei formati e metodi prescritti ( Patzner et al. 2008). Anche l’affermazione per cui il lavoro artistico sensibilizzerebbe necessariamente l’autopercezione e l’eteropercezione appare, considerando i rigorosi meccanismi di selezione, la pressione di autoaffermazione e di profilazione nonché la concorrenza in campo artistico, un po’romanticheggiante. Inoltre, il rapporto con i discenti da parte di artiste e artisti con uno spiccato orientamento al prodotto può essere potenzialmente più rigido rispetto a quello di una docente o un docente con corrispondente orientamento al processo. Potrebbe quindi darsi che il retroterra professionale conti meno, quanto piuttosto l’atteggiamento orientato al carattere «artistico» (ai sensi di Pringle, v. s.) con cui sono impostate le situazioni d’apprendimento. Ciò è stato riconosciuto anche dalle scienze pedagogiche e sociali, che negli ultimi vent’anni hanno conosciuto una «svolta performativa» (Denzin 2003), impiegano sempre più frequentemente anche metodi artistici e li esaminano in merito ai loro potenziali per l’agire pedagogico ( Mackenzie 2011; Springay 2007;  Wulf, Zirfas 2007). Viceversa si assiste a un educational turn nelle arti: si moltiplicano i progetti interdisciplinari che operano con metodi pedagogici, analizzano le condizioni della produzione di sapere con mezzi artistici e interagiscono con i più disparati gruppi e individui come partecipanti ( Podesva 2007). Il mantenimento di una rigida opposizione di «arte» da un lato e «apprendimento» dall’altro appare, in considerazione di queste sovrapposizioni, non più adeguato. È difficile stabilire una netta linea divisoria tra mediazione culturale, arte ed educazione. È illuminante in proposito tra l’altro la pedagogia teatrale: come campo professionale dispone di una propria storia specifica e si trova in costante evoluzione. Le varianti più impegnative, orientate per esempio al  teatro postdrammatico si possono distinguere solo difficilmente o non si possono distinguere affatto dall’arte teatrale, che a sua volta adotta procedimenti pedagogici e partecipativi (cfr. per esempio i progetti del gruppo viennese  Wenn es soweit ist).

In alcuni casi reagisce alle interferenze tra «mediazione culturale», «arte» ed «educazione» anche il livello di promozione. Un esempio è l’istituzione del  Projektfonds Kulturelle Bildung [Fondo progetti d’educazione artistica] del Senato di Berlino nel 2008, coordinato da un ufficio indipendente situato tra il Dicastero Cultura e il Dicastero Educazione e socialità. Oppure, in Svizzera, sono un altro esempio gli organi di coordinamento per la cooperazione tra scuole, artiste e artisti nonché istituzioni culturali, soggetti in parte ai Dipartimenti della pubblica educazione e in parte alle Divisioni culturali dei Cantoni.3

A seguito delle crisi dell’educazione e della conseguente messa in discussione della condizione attuale e soprattutto anche inclusiva di sistemi educativi, che considerano diversi tipi d’apprendimento, la formazione con e sulle arti appare, in virtù dei potenziali summenzionati, spesso e volentieri come un vettore di speranza (vedi in proposito anche il testo per chi ha un po’di tempo capitolo 1). Le  libere scuole di belle arti in Germania ad esempio sono sorte in reazione alla «Bildungskatastrophe» [disastro educativo] (Picht 1964). In esse si offriva (e si offre) in tutte le discipline artistiche – inizialmente soprattutto anche nei settori della danza, della musica e del teatro – un’attività extrascolastica, non certificata, «libera» per bambini e adolescenti. Una delle loro principali motivazioni era la critica a un orientamento troppo poco artistico, a un’eccesiva impostazione meritocratica e all’insufficiente offerta d’opportunità per «lo sviluppo personale e l’attività autocreativa» nella scuola pubblica che avrebbe dovuto essere compensata dalle scuole di belle arti (Erhart, Preise-Seithe, Raske 1980, p. 15).

Ora si dovrebbe presupporre che le offerte che si dichiarano decisamente «libere» e che servono allo sviluppo personale dovrebbero presentare un’elevata attrattiva per una grande varietà di utenti. In realtà, le libere scuole di belle arti (e non solo loro) non sono mai riuscite ad adempiere appieno la loro ambizione di apertura a tutti gli strati e a tutte le classi d’età. Di regola, le loro offerte sono utilizzate da appartenenti al ceto medio. Questa contraddizione è già stata oggetto di uno studio nel 1980 (Kathen 1980). In base all’esempio nel quartiere Königsborn della città di Unna, nello Stato federale della Renania Settentrionale-Vestfalia, nello studio vengono illustrati la competizione e gli interessi contrastanti nella fondazione di una scuola d’arte. Giovani, che fino ad allora avevano trascorso il loro tempo prevalentemente in strada, e operatori culturali hanno dapprima riattato assieme uno stabile per realizzarvi una scuola libera di belle arti. Dopo questo processo comune d’appropriazione è sorta la controversia. Le attese in fatto di educazione artistica delle responsabili e dei responsabili del corso non collimavano con gli interessi dei giovani. Da ciò è maturata la decisione di chiudere lo stabile con conseguente protesta pubblica da parte dei giovani. In qualità di docente coinvolta, l’autrice dello studio ha affrontato quest’esperienza conflittuale contestualizzandola nel quadro di uno studio concernente altre dodici scuole d’arte. L’autrice perviene a un risultato estremamente critico: il lavoro nelle scuole d’arte per la gioventù sarebbe basato su concetti elitari dell’idea borghese di cultura, anziché sviluppare alternative ad essi. Le istituzioni producono esclusioni, poiché la struttura dell’offerta non sarebbe adatta a suscitare l’interesse di bambini e adolescenti di strati sociali diversi. Questo studio già quasi storico non ha perso nulla della sua attualità. Attualmente si stanno moltiplicando le obiezioni a una valutazione acriticamente positiva delle forme d’apprendimento aperte e dell’«apprendimento autodeterminato», caratteristiche di una mediazione culturale di orientamento partecipativo e che anzi sono descritte come suo potenziale. Ad esempio, il pedagogista Michael Sertl evidenzia come queste forme d’apprendimento si basino su pratiche educative del ceto medio. Esse ricorrono a capacità, codici linguistici e comportamentali che i bambini del ceto medio hanno già sviluppato in casa, talché sono assimilati in particolare da costoro e servono soprattutto al loro «sviluppo personale» ( Sertl 2007). Postulare che siano vantaggiose per tutti significa a sua volta porre gli stili di vita e d’apprendimento del ceto medio come norme, ossia  naturalizzarle. Mentre Sertl rivolge le sue considerazioni soprattutto alla scuola pubblica, la mediatrice artistica e teorica Nora Sternfeld rivolge obiezioni simili alla mediazione culturale (Sternfeld 2005). Essa incentra la sua analisi sul nesso frequente nella mediazione culturale tra l’«appello all’esplorazione autonomo e all’indipendenza creativa» con l’idea del «talento», della «dote naturale»che va di volta in volta sviluppata individualmente. Questo approccio è considerato nell’ambito della mediazione culturale particolarmente poco elitario (Sternfeld 2005, p. 22). Con riferimento a Bourdieu (Bourdieu 2001; Bourdieu 1966, pp. 325 – 347), Sternfeld ricorda però che il «talento» è esso stesso una costruzione sociale. Sono comprovatamente considerate «spontanee», «creative» e «fantasiose» le persone cresciute e socializzate nell’ambiente della borghesia colta. Per contro, la trasmissione di conoscenze specifiche e l’esercitazione di tecniche di apprendimento sono considerate sul versante progressista del campo di lavoro della mediazione culturale piuttosto autoritarie, poco creative e antiquate.

Risulta così che anche il lavoro in contesti d’apprendimento aperti ed esplorativi presenta, nella prospettiva della mediazione culturale (premesso comunque che sia intesa come prassi critica e persegua l’ambizione della equità d’accesso), le sue contraddizioni. Da un lato, è proprio nello sviluppo di siffatti setting d’apprendimento che risiede il particolare potenziale della mediazione culturale. I suoi oggetti centrali, le arti, corrispondono ai relativi metodi pedagogici. Non v’è una valutazione formalizzata delle prestazioni, il che incentiva potenzialmente l’orientamento ai processi e l’apertura riguardo ai risultati. D’altra parte, questi contesti celano a loro volta il pericolo di produrre proprio quelle esclusioni la cui eliminazione rappresenta una delle legittimazioni centrali e uno degli impegni autodeterminati della mediazione culturale. Una risposta alla domanda su come è possibile affrontare questa contraddizione si trova già nello studio summenzionato di Dagmar von Kathen del 1980 che critica la modalità di confronto scarsamente analitica con l’arte nelle scuole libere di belle arti. I bambini e gli adolescenti vi verrebbero iniziati  all’amore per l’arte (Bourdieu, Darbel 2006; Bourdieu, Darbel 1972). «Nel confronto con l’arte è però necessario, ai fini di un’utilità per un’educazione estetica emancipatoria, che si tratti di un’analisi critica dell’arte. Non ogni espressione artistica è di per sé positiva […]. Fa parte del rapporto con l’arte la conoscenza della sua funzione sociale, della posizione sociale degli artisti, della loro significativa individualizzazione ecc. […]» (Kathen 1980, p. 155). Von Kathen propone quindi di rendere oggetto della mediazione culturale anche l’analisi delle funzioni sociali dell’arte. Ciò corrisponde all’approccio di Sternfeld volto segnatamente, nel lavoro con gruppi emarginati nella mediazione culturale, a non occultare quindi legittimare le esclusioni istituzionali, bensì a svilupparle (Sternfeld 2005, p. 31). Si tratta indubbiamente di una componente importante di una mediazione culturale intesa come prassi critica che di principio, laddove da parte della mediazione sussista un interesse e la disponibilità in tal senso, può essere realizzata almeno embrionalmente in qualsivoglia situazione. Tuttavia, con una tematizzazione contenutistico-verbale non si opera ancora contro le esclusioni. La critica alle forme d’apprendimento aperte è essa stessa un fatto di privilegi. Di conseguenza, anche i critici come Sertl (2007, p. 1) non propongono l’abolizione delle forme d’apprendimento aperte, bensì di tenere conto a livello pedagogico dei loro potenziali d’esclusione anziché trattarli in modo ingenuo ed euforico. Ai sensi di una siffatta riflessività, nella mediazione culturale andrebbe prima di tutto sviluppato un distanziamento scettico nei confronti delle proprie «verità» pedagogiche. Una mediazione espositiva per esempio che parte dal presupposto che sarebbe sostanzialmente antielitario e democratico far scegliere alle partecipanti e ai partecipanti il loro «quadro preferito» e proporre loro di lasciarsi andare a «libere associazioni» di fronte a quel quadro, potrebbe verificare questa prassi riguardo al fatto di cosa comunque possa essere «liberamente» associato ed esternato in una situazione di gruppo in un museo senza violare regole di comportamento non scritte – oppure di chi la mediatrice o il mediatore troverà «interessanti» le associazioni. In tutte le discipline i metodi di acquisizione delle conoscenze stessi possono diventare oggetto di mediazione, anziché puntare sulla «intuizione» pedagogica della mediatrice o del mediatore ed eccessivamente sull’autodeterminazione dei discenti. Ciò presuppone però che le persone attive nella mediazione culturale dispongano di una tale professionalità pedagogica da essere in grado di mettere a disposizione delle e dei partecipanti il loro sapere metodologico – quindi di rappresentarlo sistematicamente e di renderlo accessibile verbalmente e nell’esercizio.4

Sternfeld si spinge oltre e chiede che le mediatrici e i mediatori culturali, e in ultima istanza le istituzioni culturali, si solidarizzino attivamente con le esigenze di questi gruppi: «L’autoconsiderazione di una tale mediazione costituirebbe un’apertura delle istituzioni anche per la prassi e l’organizzazione politiche» (Sternfeld 2005, p. 32). Un impegno coerente contro le esclusioni istituzionali porterebbe di conseguenza a una mediazione culturale con  funzione trasformativa per le istituzioni.

1 Il ciclo dell’apprendimento di Kolb e Fry qui evocato è stato criticato per vari aspetti ed ampliato in modelli più complessi. Il presente testo ha però fondamentalmente carattere introduttivo e può quindi trattare anche il complesso campo delle teorie dell’apprendimento con le sue posizioni contrastanti solo in modo sommario.

2 KLiP («Kunst und Lernen im Prozess» [arte ed apprendimento in processo]) si è svolto durante tre anni presso diverse scuole di Berlino.

3 Un elenco di tutti questi centri di coordinamento è consultabile al sito http://www.kulturvermittlung.ch/fr/infotheque/liens/suisse/services-de-coordination.html [25.1.2013].

4 In una prospettiva postcoloniale è stato inoltre recentemente rilevato che la svalutazione di forme d’apprendimento come imitare, copiare o imparare a memoria sosterrebbe l’affermazione colonialista di una supremazia occidentale rispetto ad approcci non occidentali all’apprendimento (Spivak 2012, p. 46).

Bibliografia e link

Contributi pubblicati su cui si basa in parte questo testo:

Altri riferimenti bibliografici:

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