Lista dei preferiti →
Scarica testo in formato PDF ↓ Per chi si sofferma

Lavorare in rapporti di tensione 3:
Obiettivi d’apprendimento occulti della mediazione culturale

«Il ‹diritto all’istruzione›, un tempo oggetto di battagliera rivendicazione, è oggi diventato un obbligo di formazione a vita che, pena il proprio tramonto, reclama un soggetto d’apprendimento flessibile e commerciabile.» ( Merkens 2002)

Nel testo per chi ha un po’ di tempo del capitolo 2 è stato esposto come nel contesto dell’indirizzamento nella mediazione culturale la richiesta implicita alle invitate e agli invitati di assimilarsi alle invitanti e agli invitanti vada affrontata in una prospettiva di critica antiegemonica. Nel presente capitolo si intende approfondire ed illustrare questa problematica tenendo conto dei contenuti della mediazione culturale. L’analisi è incentrata su contenuti, ovvero sugli obiettivi d’apprendimento occulti della mediazione culturale sull’esempio dell’«apprendimento a vita». Nel 2007 è stato pubblicato in Italia il Manuale europeo  Musei e apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Nel 2010, il Deutscher Museumsbund ha tradotto e ampliato il documento, risultato di un progetto sostenuto dall’Unione Europea. 1 In questo documento, «l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita» è definito come un apprendimento informale (ossia che avviene nel contesto sociale e non è certificato). Inoltre, il documento sottolinea l’«importanza e il significato dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita». Il manuale offre, oltre a consigli pratici per la formazione degli adulti nel museo, numerosi riferimenti a rapporti di potere storici e attuali nelle istituzioni espositive che influenzano gli interventi formativi negli stessi. Non teme nemmeno (come una delle rare pubblicazioni di questo tipo) di menzionare esplicitamente il razzismo (Museumsbund 2012, p. 87; LLML 2007, p. 84). Esso invita ad «assicurarsi che la diversità del personale rifletta la diversità del pubblico che il museo desidera attrarre» (Museumsbund 2012, p. 15; LLML 2007, p. 17). Esso rivendica l’esigenza, per un lavoro museale al passo con i tempi, di un consapevole incontro tra pari con le visitatrici e i visitatori e in special modo con le partecipanti e i partecipanti ai progetti di mediazione, tenendo conto degli effetti di condizioni di partenza disuguali. Esso menziona la pedagogia della liberazione di Paulo Freire (Freire 1974, [Freire 1973 L’educazione come pratica di libertà, Milano: Mondadori, 1973]) come esempio per i concetti d’apprendimento attualmente validi nei musei. Da questi punti di vista, il manuale potrebbe essere definito informato dall’idea di una mediazione culturale come prassi critica. Parallelamente, è però assente qualsivoglia menzione alle critiche formulate da ormai due decenni al motivo conduttore del manuale, il concetto stesso di apprendimento lungo tutto l’arco della vita e l’importanza attribuita alle  soft skills. che ne consegue. Le autrici (provenienti anche dalla consulenza museale) descrivono così il relativo potenziale di musei e centri espositivi dal loro punto di vista: «I musei possono rivelarsi un luogo ideale per promuovere l’apprendimento informale. I visitatori possono uscire da un museo sapendo qualcosa di più rispetto a quando vi sono arrivati, acquisendo cognizioni, intuizioni o ispirazioni che possono determinare un cambiamento positivo nella loro vita» (Museumsbund 2010, p.11; LLML 2007, p.13, corsivo dell’autrice). Anche se il manuale qui citato ad esempio e altre pubblicazioni simili sottolineano in particolare come proprio la radicale diversità di chi apprende costituisca un particolare potenziale della formazione degli adulti, si presuppone tuttavia acriticamente che la disponibilità all’«apprendimento a vita» sia per tutti auspicabile allo stesso modo e che per tutti si tratti di sviluppare ulteriormente la propria personalità tramite la frequentazione dei musei in modo tale da ottimizzare i presupposti personali a tal fine. Questo punto cieco appare meno casuale quanto piuttosto il sintomo di un obiettivo d’apprendimento «occulto» della mediazione culturale: lo sviluppo di una disposizione, di un  habitus caratteristico per «l’uomo flessibile» (Sennett 1998), della persona che sa costantemente reinventarsi e adattarsi, in grado di sopravvivere «in un’economia postindustriale basata sul breve termine e il rapido cambio» ( Ribolits 2006) senza gravare sulla collettività. La crescente flessibilizzazione dell’organizzazione e della produzione di lavoro conseguente al passaggio da un sistema produttivo  fordista al postfordismo determina il fatto che «la disponibilità a costituire e ottimizzare (in permanenza) la propria idoneità lavorativa» diventa «una condizione essenziale della partecipazione sociale, ossia della possibilità di sopravvivere nel capitalismo postfordista» (Atzmüller 2011). L’espansione del concetto di «apprendimento continuo» può essere seguita lungo l’arco degli ultimi 40 anni: dalla rivendicazione bottom-up degli anni 1970 della possibilità i un’educazione permanente (nel senso dell’equità nell’accesso alle risorse di formazione) all’idea socialmente radicata dagli anni 1990 dell’opportunità di un apprendimento lungo tutto l’arco della vita (nel senso di una concezione più complessa delle biografie d’apprendimento, che relativizza l’idea di processi di qualificazione e stadi di sviluppo scalari) fino all’imperativo attuale del dovere di apprendere a vita per non rischiare la sorte di «svantaggiati a livello di formazione» (Quenzel, Hurrelmann 2010) e per rimanere competitivi. I tre concetti sono attualmente tutti presenti e coagenti. Ciò spiega in parte l’approccio positivo com’è articolato per esempio nel manuale summenzionato. Inoltre, esso è ulteriormente alimentato dalla crescente trasposizione della responsabilità per l’adempimento dell’esigenza dell’apprendimento a vita al singolo individuo come «imprenditore di sé» (Bröckling 2007). 2 Negarsi a un atteggiamento corrispondente rispetto al proprio sé non sembra essere un’opzione socialmente accettabile in quanto significherebbe sottrarsi attivamente alla pianificazione di una vita ritenuta alle attuali condizioni prevalentemente come «di successo». In una tale prospettiva è del tutto pacifico che accanto alle conoscenze e alle competenze tecniche assumano sempre maggiore rilievo come contenuto delle formulazioni degli obiettivi d’apprendimento e delle attività di istruzione le cosiddette soft skills, ossia qualità caratteriali e atteggiamenti personali. Nel manuale qui citato ad esempio sono descritti i risultati attesi dai processi d’apprendimento informali di adulti nel museo.3 Oltre ai prevedibili accrescimenti del sapere riferiti al tema come per esempio «maggiore conoscenza di tempi specifici», «migliore comprensione di determinate idee e concetti» o anche «migliori competenze tecniche o di altra natura», un numero decisamente più elevato dei possibili risultati dell’apprendimento concerne cambiamenti di condizioni e atteggiamenti personali delle discenti e dei discenti: da «maggiore autostima», «sviluppo personale», «mutamento nelle attitudini e nei valori», «ispirazione e creatività», «interazione e comunicazione sociale», «empowerment della comunità», «sviluppo dell’identità» fino a «migliori condizioni di salute e maggiore benessere» (Museumsbund 2010, p.31; LLML 2007, p.34). Con questa trasposizione ogni visitatrice e ogni visitatore diventa un caso clinico e l’istituzione culturale un’istituzione terapeutica in quanto l’ottimizzazione delle molteplici caratteristiche non sarà mai del tutto terminata. Più del confronto con i contenuti di un’esposizione sembra contare l’obiettivo di insegnare alle partecipanti e ai partecipanti vie per «l’impiego creativo del proprio potenziale» ( Sertl 2007, p.9). Inoltre, per quanto concerne il benessere, l’autostima, il comportamento sociale e comunicativo o i valori, si tratta di aspetti che possono essere attribuiti alla sfera privata, talché la loro attribuzione, osservazione e valutazione da parte del personale di un’istituzione culturale possono essere intese anche come soprusi. Nondimeno, si articola come cosa ovvia che la mediazione culturale nel contesto dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita deve contribuire ad aumentare la disponibilità del singolo di continuare ad imparare.

Il fatto che proprio alla mediazione culturale sia attribuito a questo proposito un potenziale particolare non è casuale. Se la figura dell’artista nel 19° secolo, all’epoca del capitalismo industriale, era ancora una controfigura rispetto al padronato di stampo borghese, oggi, nell’era del  capitalismo cognitivo si evidenziano numerose coincidenze tra le proprietà ascritte alle artiste e agli artisti e gli ideali del management contemporaneo: «autonomia, spontaneità, mobilità, disponibilità, creatività, pluricompetenza [...], la capacità di creare reti» (Boltanski, Chiapello 2003, p. 143 segg.). Le artiste, gli artisti come pure le cosiddette «creative» e i cosiddetti «creativi» si prestano bene come modelli di ruolo per il sé imprenditoriale (Loacker 2010). Sono considerati capaci d’improvvisazione (anche in relazione all’insicurezza e alla povertà), orientati alla soluzione dei problemi, curiosi, ottimisti e soprattutto autoimprenditoriali. Un costante sviluppo personale e un’autotrasformazione permanente fanno parte dell’articolato concetto di sé positivo di molte operatrici e operatori di cultura (Loacker 2010, p. 401).

Il problema di fondo dell’adozione acritica del compito di promuovere l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita come valore interiorizzato mediante la mediazione culturale risiede di nuovo in un sostegno involontario della produzione, ovvero della giustificazione della diseguaglianza. Anziché affrontare la deregolamentazione economica e la crescente incertezza sociale con la ridistribuzione, esse sono legittimate mediante l’appello alla creatività e alla flessibilità del singolo e l’invito a continuare a investire per tutta la vita del proprio capitale umano.

A livello pragmatico, è opportuno ricordare in questa sede che il soggetto artistico felicemente autoorganizzato come modello di ruolo per un’attività lucrativa al passo con i tempi è una figura fittizia. Le artiste, gli artisti come pure le operatrici e gli operatori culturali lavorano in Europa per lo più in condizioni economiche relativamente poco allegre. Sono in molti a vivere della metà (o meno) del minimo vitale ufficiale e con una previdenza malattia e vecchiaia insufficiente o inesistente ( Lazzarato 2007). Queste condizioni di vita non sono da tutti apprezzate e integrate di buon grado nel concetto di sé. Anzi, contro di esse esiste una resistenza organizzata. La dote della curiosità e la capacità di reinventarsi non devono sfociare necessariamente in prestazioni di adattamento, ma possono anche generare fantasiosi interventi politici (Lazzarato 2007). A titolo d’esempio tra molti menzioniamo qui il  GlobalProject / Coordination des intermittents et précaires d'Ile-de-France istituito nel 2003 per riformare le condizioni di lavoro delle persone occupate nel settore delle arti di scena e nel settore audiovisivo in Francia. Oppure il «Carrotworkers’ Collective» in Inghilterra, nel quale operatrici e operatori di cultura con occupazione  precaria si alleano consapevolmente con altri gruppi professionali sottopagati e precari, per esempio dei settori delle cure e della gastronomia.

Negli ultimi anni, anche la mediazione culturale è stata tematizzata sotto la prospettiva delle condizioni di lavoro precarie in campo artistico. La mediatrice artistica, artista e attivista Janna Graham racconta nel suo articolo «Spanners in the Spectacle: Radical Research at the Frontline» ( Graham 2010) dell’aprile 2010 delle azioni di sciopero attuate in parte con mezzi artistici e dell’esplorazione delle proprie condizioni di mediatrici e mediatori della Biennale di Venezia, in cooperazione con S.a.L.E. Docks e del progetto  Pirate Bay da esso ospitato e a sua volta legato alla Biennale. Nell’autopresentazione di S.a.L.E. Docks si legge: «S.a.L.E. è un laboratorio permanente di pirateria nella laguna, una situazione autogestita che dal 2007 si batte contro ogni tipo di privatizzazione e sfruttamento del sapere e della creatività». Sta di fatto, tuttavia, che pratiche di resistenza sono finora meno frequenti nel campo professionale della mediazione culturale. Anche le persone occupate nella mediazione culturale (spesso esse stesse con una formazione come artiste e artisti) incarnano quelle soft skills così apprezzate nel postfordismo: in virtù della loro professione si reputano socialmente competenti, capaci di lavorare in gruppo e di stabilire reti, inventivi nell’impiego di risorse scarse, curiosi e sempre disposti ad apprendere. In analogia alla figura dell’artista come modello di ruolo, la mediazione culturale è legata alla promessa di liberare i potenziali creativi di ogni individuo, non da ultimo a beneficio dell’economia, e di produrre «lavoratori che danno prova di flessibilità e di adattabilità» ( UNESCO 2010, Road Map).4 Anche coloro che sono attivi nella mediazione si trovano per lo più in condizioni di lavoro precarie. Nondimeno, essi formano – possibilmente ancor più delle artiste e degli artisti – (ancora) un gruppo con un’origine sociale relativamente omogenea. Essi provengono per la maggior parte dai «nuovi ceti medi» ( Sertl 2008), sono  lavoratrici e lavoratori della conoscenza. Nella loro autopercezione, l’idea dell’apprendimento a vita è piuttosto associato ai concetti di possibilità e opportunità che non a un obbligo. In quest’ottica il desiderio di promuovere anche presso le partecipanti e i partecipanti alle loro offerte l’atteggiamento di un apprendimento infinito è a sua volta debitore di un’idea di «uguaglianza» paradossale: da un lato si tratta di dividere i privilegi, di stabilire parità nell’accesso alla risorsa educativa cultura, d’altra parte si tratta di un’assimilazione degli altri a se stessi, di convincerli che i propri ideali del soggetto discente sono quelli giusti. Un distanziamento critico dall’idea dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita significherebbe pertanto per la maggioranza delle mediatrici e dei mediatori culturali un distanziamento dai propri valori e dalle proprie norme se non addirittura dalle proprie motivazioni professionali. In realtà, proprio questa capacità di distanziamento da sé costituirebbe un segno di professionalità pedagogica.

Anche da questo paradosso (paragonabile al paradosso del riconoscimento nel testo 2.PS) per forza di cose non esistono vie d’uscita semplici. Non a caso anche le critiche summenzionate e ben motivate all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita e a concetti simili sono di regola formulate da persone per le quali l’accesso a risorse formative e alla conoscenza delle tecniche d’apprendimento sono cose ovvie. Anche in questo caso, la soluzione non può quindi essere quella di cessare di trasmettere tramite la mediazione culturale anche il piacere dell’apprendimento e del proprio sviluppo. Ciò significherebbe soltanto conservare posizioni di privilegio. Un rapporto scettico e critico con concetti apparentemente connotati solo positivamente, come l’apprendimento a vita ai sensi della riflessività pedagogica, dovrebbe però portare a una prassi modificata e di trasformazione nella mediazione culturale. Non si potrebbe allora più trattare unicamente di entusiasmare i partecipanti per un dato oggetto influenzando la loro formazione della personalità «per il loro bene» ai sensi di un piano di studi occulto. In tal modo diventerebbero contenuto di mediazione gli stessi momenti di distanziamento critico. Forse materiali come  l’Alternative Curriculum), elaborato dal Carrotworkers’ Collective come manuale per lavoratrici e lavoratori culturali con impiego precario potrebbero essere presi come spunto per tematizzare nella situazione di mediazione cosa significa di volta in volta per i partecipanti avere la possibilità/l’opportunità/l’obbligo di apprendere. Giungere dalla necessità dell’ottimizzazione individuale a vita nel segno della concorrenza a un concetto di apprendimento atto a prolungare la vita, che punta alla comunità e non accetta persone lasciate per strada potrebbe essere un obiettivo d’apprendimento per la mediazione culturale.

Ad ogni modo, qualunque sia l’atteggiamento che si intende assumere – dalla descrizione del problema qui presentata dovrebbe essere chiaramente emersa la necessità di posizionarsi come mediatrici e mediatori culturali rispetto agli obiettivi perseguiti con il proprio lavoro rendendoli per quanto possibile trasparenti rispetto alle partecipanti e ai partecipanti, presupposto che si intenda seguire le autrici e gli autori del manuale «Musei e l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita» nella loro ambizione di un apprendimento tra pari.

1 Il manuale è il risultato del progetto biennale Lifelong Museum Learning (LLML), finanziato dalla Commissione Europea tra l’ottobre 2004 e il dicembre 2006 nell’ambito del programma Socrates Grundtvig. Versione originale: Musei e apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Un manuale europeo. [Lifelong Learning in Museums. A European Handbook.] Gibbs, Kirsten; Sani, Margherita; Thomson, Jane (a c. d.), Ferrara: Edisai srl, 2007. Edizione tedesca ampliata: Deutscher Museumsbund e.V., Prof. Dr. Michael Eissenhauer e Universität Hildesheim, PD Dr. Dorothea Ritter.

2 Il crescente trasferimento di tecniche di governo alle capacità di autoregolazione dell’individuo è nel frattempo diventato un ampio campo di studi in seno alle scienze sociali: gli studi sulla governamentalità.

3 Le autrici si riferiscono per quest’elenco ai «Risultati generali dell’apprendimento» (Generic Learning Outcomes) sviluppati da Eileen Hooper Greenhill, un sistema per l’identificazione dei risultati dell’apprendimento della visita di musei. Vedi → http://www.inspiringlearning.com/toolstemplates/genericlearning/index.html [5.9.2012] e Hooper Greenhill, 2007 → vedi testo 7.PS.

4 «Nelle società del XXI secolo, si manifesta una domanda crescente di lavoratori che danno prova di creatività, di flessibilità, di adattabilità e di innovazione. I sistemi educativi devono dunque evolvere in funzione di questa nuova realtà sociale. L’educazione artistica dota gli alunni di tutta una gamma di strumenti […].» In: UNESCO, Road Map per l’educazione artistica, Seoul 2010.

Bibliografia e link

Riferimenti bibliografici:

Links: