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Lavorare in rapporti di tensione 1:
Storia della mediazione culturale tra emancipazione e disciplinamento

«Difficile trovare un verbo che nell’uso della lingua o scherzosamente non possa essere composto con il prefisso ver-, e il concetto di fondo che esso esprime è sempre un movimento di allontanamento dal parlante; un Verlust, una perdita, appunto.» (Mauthner 1913)

«Je me suis aperçu que l’initiation consistait à inquiéter les gens et ne rien leurs apprendre» (Caillet 1995)

La mediazione culturale – e in particolare la mediazione delle arti – non va considerata (solo) come comunicazione, esplicazione, descrizione o un trasferimento possibilmente indolore di conoscenze compiuto da specialisti, da presunti detentrici e detentori del sapere a presunti ignoranti. La controversia che agisce in essa su chi di volta in volta ha il diritto e la possibilità di possedere, vedere, mostrare arti e parlare di esse è vecchia quasi quanto le arti stesse. Già nelle epistole di Plinio, risalenti all’inizio del primo millennio dopo Cristo, si riscontrano riferimenti a pubbliche controversie sulla questione se le collezioni d’arte potessero essere tenute sotto chiave in quanto proprietà privata o dovessero essere rese accessibili al pubblico (Wittlin 1949, p. 109). Nell’era moderna, a seguito dei rivolgimenti della Rivoluzione francese e dell’industrializzazione, sono sorte esigenze iscritte dapprima nella fondazione di musei pubblici e poco dopo nella prassi della mediazione museale: la giustificazione del possesso statale di beni culturali depredati nel corso di guerre di conquista e della colonizzazione; la diffusione di miti fondatori nazionali per la formazione di una coscienza patriottica nella popolazione; il disciplinamento di una crescente classe operaia ai sensi dei concetti di vita borghesi; la necessità dell’educazione estetica (nel senso delle abilità creative e dello sviluppo del gusto) per l’assicurazione di capacità nel quadro della concorrenza economica, globale / coloniale; ma anche l’idea della democratizzazione dell’educazione e – ancora – ­delle arti come parte della vita pubblica alla quale hanno diritto tutti i membri di una società (Sturm 2002, p. 199 segg.).

A partire da queste premesse, nell’Inghilterra del 19° secolo sono stati istituzionalizzati musei come luogo di apprendimento per classi scolastiche e, dopo l’Esposizione universale del 1851, anche per la formazione degli adulti. Sono così sorte «Philanthropic Galleries» in cui riformatrici e riformatori sociali, ecclesiastici, ma anche artiste e artisti impiegavano dipinti e sculture come strumenti per avvicinare gli indigenti e il proletariato di fabbrica alle virtù borghesi e per affermare le arti come componente di un modello di buona vita al di là della classe e dell’origine ( Mörsch 2004a). Diverse di queste istituzioni, come la South London Gallery, sono nate a partire da  Working Men Colleges, ossia in seno al movimento operaio. Il movimento tedesco di educazione artistica, sviluppatosi a partire dalla pedagogia riformata, ha propagato all’inizio del 20° secolo la necessità pedagogica della libera espressione dell’individuo. Sotto questa influenza, nell’ambito dell’educazione popolare sul piano internazionale si svilupparono accessi alla mediazione di musica, teatro e arte visiva (come ricezione delle opere e cosiddetta occupazione per dilettanti). Ma già allora «libera espressione» non significava assenza di scopo. Così come Friedrich Schiller, che nella sua pubblicazione del 1801 «Sull’educazione estetica dell’uomo» (Berghahn 2000; Schiller 2005 [Schiller, F. (2005) Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Roma: Armando, 2005]) ha delineato l’educazione estetica come uno strumento per consentire lo sviluppo della personalità dell’individuo evitando una lotta condotta anche con mezzi violenti contro le esistenti condizioni di dominio, emergono scopi anche dagli scritti del movimento dell’educazione artistica: «Perché il rinnovamento dell’educazione artistica del nostro popolo è, dal punto di vista etico, politico ed economico una delle questioni vitali del nostro popolo», ha scritto Alfred Lichtwark, direttore della Kunsthalle di Amburgo e considerato il fondatore della mediazione artistica museale in Germania nel suo contributo dal titolo «Der Deutsche der Zukunft» alla pubblicazione edita in occasione della prima Giornata per l’educazione artistica a Dresda del 1901. La mediazione culturale appare qui un mezzo per affermare il ruolo di un Paese come nazione economica e culturale. Uno studio storico del 2005 mostra in corrispondenza a titolo esemplificativo come l’educazione estetica sia stata impiegata dal colonialismo per affermare la supremazia di valori e sistemi di governo europei (Ibrough 2005). Parallelamente sono state sviluppate anche concezioni per una mediazione culturale all’insegna dell’emancipazione di stampo marxista. Walter Benjamin per esempio è autore di un programma per il lavoro teatrale con bambini e adolescenti influenzato in larga misura dal teatro proletario di bambini di Asja Lacis (Benjamin 1977, p. 764 segg. [Benjamin, W. (1976) Programma per un teatro proletario di bambini, in Asja Lacis, Teatro proletario di bambini, in Professione: rivoluzionaria, Milano: Feltrinelli, 1976]).

Fin dall’inizio, la lotta contro l’esclusione sociale in  campo culturale è un’ambizione e un obiettivo mai raggiunto della mediazione culturale. Lichtwark, egli stesso di umili origini, perseguiva l’intento di rendere accessibile l’educazione artistica a tutti gli strati sociali ma praticava le sue «Übungen in der Betrachtung von Kunstwerken» [Esercitazioni all’osservazione delle opere d’arte] (Lichtwark 1897) con allieve della scuola superiore femminile. Le «Freie Kunstschulen» [Libere accademie di belle arti] istituite negli anni Sessanta in Germania, così come le «Kreativwerkstätten» [Laboratori creativi] nei centri sociali di Zurigo interpellano a tutt’oggi prevalentemente un pubblico selezionato soprattutto nel confronto con proposte socioculturali non incentrate sull’arte. I tentativi di decentrare e popolarizzare il teatro contemporaneo in Francia a partire dagli anni 1950 hanno comportato modifiche sostanziali nel panorama teatrale del Paese senza però modificare sostanzialmente la composizione del pubblico (Duvignaus 1986, p. 64; Bérardi, Effinger 2005, p. 75 segg.). Anche le offerte di mediazione nell’ambito della musica classica raggiungono finora quasi esclusivamente un pubblico già interessato ( Aicher 2006). Le accademie d’arte e di musica sono d’altronde a tutt’oggi i luoghi di formazione terziaria più esclusivi a livello europeo: nemmeno per l’accesso all’università occorrono investimenti preliminari così cospicui – in forma di  capitale economico ( Seefranz, Saner 2012) quanto simbolico, allorquando le accademie sono istituzioni che hanno la pretesa di selezionare i propri studenti solo in base al «talento» – un concetto che in generale è considerato indipendente dal contesto sociale o nazionale.

Pertanto, i concetti di «cultura» e di «arte» non sono neutrali, ma vettori di norme e di conseguenza contesi. È considerato «colto» chi, ai sensi del sociologo Pierre Bourdieu (Bourdieu 1983) dispone di una data composizione di gusto e conoscenze che si articola per esempio tramite le conoscenze delle arti e del design, il consumo di beni voluttuari, il rapporto con il proprio corpo e il corpo degli altri o attraverso stili di abbigliamento e comunicazione. Ciò che di volta in volta fa parte dell’insieme dell’«urbanità» è soggetto a mutamenti, ma un elemento rimane costante: «cultura» sta qui per l’affermazione e la distinzione di stili di vita riconosciuti. Oltre a ciò, il concetto, in riferimento a una visione del mondo d’impronta coloniale, è utilizzato anche in funzione di distinzione etnica, nel senso di «cultura propria» e «cultura straniera» o «altra».1 Bourdieu aveva pubblicato lo studio «La distinzione. Critica sociale del gusto» già nel 1979. Ma ancora oggi sono numerose le ricerche che fanno riferimento al sociologo francese. Fatto sta che entrambe le funzioni di delimitazione – quella tra uno strato sociale e l’altro e quella che cerca di distinguere il presunto «proprio» da un presunto «straniero» – per quanto antiche e conosciute, continuano ad agire. È tenendo conto di questo retroscena che vanno letti i tentativi di continuare a utilizzare il concetto di cultura, spogliandolo però delle descritte funzioni di distinzione. Così, dagli anni 1920 il movimento dell’Education populaire in Francia, dagli anni 1950 i Cultural Studies in Inghilterra o anche la pedagogia brasiliana della liberazione (Freire 1974 [Freire 1973, L’educazione come pratica di libertà, Milano: Mondadori, 1973]) propongono un concetto esteso di cultura che include pratiche quotidiane e fenomeni «popolari». Secondo questa concezione, la prassi culturale e la sua ricerca e mediazione dovrebbero sostenere la lotta contro la diseguaglianza, per esempio lungo le condizioni economiche o le categorie sesso, etnicità o provenienza nazionale anziché confermarle e riprodurle. All’interno di questa tradizione si collocano anche parti della pedagogia culturale e  dell’animazione socioculturale nell’area germanofona e francofona dagli anni 1970 e la pratica di artiste e artisti in scuole e istituzioni dell’educazione non formale ( Mörsch 2005). Allo stesso tempo, in particolare nell’area anglosassone e angloamericana, i movimenti per i diritti civili rivendicano, d’intesa con artiste e artisti, la visibilità e la partecipazione creativa delle minoranze in campo artistico – una rivendicazione alla cui realizzazione contribuiscono da allora attivamente le attrici e gli attori della mediazione culturale ( Allen 2008).

In considerazione dei rapporti di tensione di origine storica qui esposti nella massima brevità, non sorprende certamente il fatto che la mediazione culturale sia una prassi eterogenea. A dipendenza degli obiettivi e dei concetti d’arte e di educazione essa può posizionarsi e presentarsi nelle forme più disparate. Se è incentrata sull’idea dell’aumento del pubblico, essa si colloca in prossimità del marketing. Se è intesa in primo luogo come un processo educativo in senso democratico-civile e/o artistico, assume rilevanza la dimensione pedagogica nel senso della stimolazione e dell’animazione di dibattiti o della promozione e dell’accompagnamento di processi artistico-creativi. Se deve servire soprattutto allo sviluppo economico, per esempio al promovimento di cosiddette industrie creative, potrebbe anche essere ispirata da logiche imprenditoriali. Se punta in particolare alla lotta contro strutture che generano disuguaglianza presenta punti di contatto con il lavoro sociale o l’attivismo. Al di là di tutto ciò, può essere intesa anche come una prassi informata all’arte – non da ultimo in base al fatto che le artiste e gli artisti partecipano da lungo tempo e in modo determinante  all’affermazione della mediazione culturale come campo pratico e hanno contribuito a caratterizzarla (Mörsch 2004a). Ma qualunque sia la priorità stabilita: la mediazione culturale istituzionalizzata si trova di per sé in una condizione d’ambivalenza. Essa serve alla stabilizzazione e alla legittimazione delle istituzioni culturali, in quanto provvede al pubblico e rappresenta verso l’esterno gli interessi dell’istituzione. La mediazione costituisce però anche un elemento permanente di disturbo in quanto il solo fatto della sua esistenza evoca l’ambizione mai del tutto soddisfatta di considerare le arti come un bene comune. Forse dipende proprio da questa funzione di rimando, da questa produzione di differenza in seno al sistema che il suo statuto è spesso  precario e generalmente situato in basso nella gerarchia istituzionale. La prassi è fino a oggi corrispondentemente  femminilizzata. Inoltre, da parte del campo artistico, la mediazione culturale è costantemente esposta al sospetto di tradire l’arte – per esempio tramite lo scostamento del parlare d’arte dal suo codice specifico. Oppure perché tramite la mediazione appaiono in campo artistico soggetti che con la loro presenza interrompono la sua routine e fanno sì che improvvisamente prenda consapevolezza di sé.

Dalla metà degli anni 1990, in risposta a questi rapporti di tensione sono stati sviluppati concetti di mediazione culturale che assumono quale produttivo punto di partenza per la prassi proprio la produzione di differenza e l’inadempibilità del compito. Nel 1994 è stato istituito su mandato del Ministero francese della cultura e in base a un rilevamento dei bisogni il corso di studi «Médiation Culturelle des Arts» all’Université Aix-Marseille in Francia. Il curricolo è diretto da  Jean-Charles Bérardi, un sociologo dell’arte che nel suo approccio si riferisce tra l’altro a Pierre Bourdieu e agli studi successivi basati sul suo lavoro. Nella sua prospettiva, la médiation culturelle des arts è un campo d’impegno politico in cui si tratta di rivendicare le istituzioni culturali come spazio pubblico. In essa non si intende disinnescare la tensione tra arte e pubblico, bensì renderla punto di partenza e oggetto di dibattito. Nella médiation culturelle des arts occorre dunque interrogarsi sulla rilevanza sociale delle arti e, di converso, sulla rilevanza della società per il campo dell’arte (Bérardi, Effinger 2005, p. 80). Questo concetto della médiation culturelle des arts si basa sulla linguistica, tra cui il modello dello psicoanalista Jacques Lacan (Effinger 2001, p. 15). In base a tale approccio, il parlare delle arti produce necessariamente una mancanza in quanto il linguaggio non è mai identico con ciò a cui fa riferimento. Rimane sempre un residuo intraducibile, che non può essere detto. Questa mancanza è però considerata, con Lacan, produttiva. È la base della costituzione dell’io, della percezione dell’alterità e quindi della produzione reiterata di simboli. Jean Caune, uno dei maggiori teorici della médiation culturelle francese, parla a questo riguardo di una «brèche» (breccia) (Caune 1999, p. 106 segg.), attraverso la quale balugina l’altro che non può mai essere compreso interamente. Da questa prospettiva, egli ritiene la mancanza della pretesa di riparare la frattura tra le arti e la società mediante l’esplicazione e l’accessibilità la base per la comprensione della médiation culturelle. Essa non è progettata come trasmissione d’informazione, ma come un atto performativo, come processo di creazione di rapporti tra i soggetti partecipanti (per esempio, mediatrici, mediatori e pubblico), i vettori d’espressione (per es. le opere) e l’inquadramento sociale (per es. le istituzioni culturali). In questo Elisabeth Caillet, un’altra esponente di spicco della médiation culturelle francese, intravede un parallelismo con il complesso rapporto tra artista, opera e mondo (Caillet 1995, p. 183). Un approccio corrispondente a quest’abbozzo è stato sviluppato indipendentemente da esso dalla mediatrice artistica e teorica Eva Sturm. Nella sua opera apparsa nel 1996, assai influente sulla mediazione artistica nell’area germanofona Im Engpass der Worte. Sprechen über moderne und zeitgenössische Kunst (Sturm 1996) analizza anch’essa l’atto del parlare nella mediazione artistica nel museo a partire da Lacan. Laddove Caune usa il termine di «brèche», Sturm usa in concetto di «Lücken reden» [parlare «a iati»] (Sturm 1996, p. 100). La mediazione artistica diventa per lei un atto performativo della traduzione, in cui va sempre perduto qualcosa e si aggiunge qualcosa di nuovo determinando la nascita di qualcosa d’altro che non è mai identico con il contenuto da tradurre. Anche per lei mediare non significa quindi né spiegare né conciliare. Ver-mittlung, mediazione, realizza i potenziali menzionati nella citazione iniziale del prefisso Ver-, nel senso della Verstrickung [intreccio], del Kontrollverlust [la perdita del controllo] e del Verfehlen [mancare] a favore della produzione di intrecci di relazioni e spazi d’azione non (sempre) controllabili.

A partire dal momento sistemico di disturbo che, come qui descritto, è sempre stato connesso come sintomo alla mediazione culturale istituzionale, sono stati sviluppati lo scorso decennio e con il recupero dei movimenti sopra descritti degli anni 1970 e 1980 concetti per una mediazione artistica intesa come prassi di critica dell’egemonia, come consapevole interruzione e controcanonizzazione (Marchardt 2005; Mörsch et al. 2009; Graham, Shadya 2007;  Rodrigo 2012, Sternfeld 2005). Il concetto di egemonia designa in questo contesto il rapporto di dominio prevalente nelle democrazie a organizzazione capitalista di stampo occidentale, e che si fonda sul consenso sociale anziché sull’imposizione violenta. (Haug, Gramsci 2004, p. 3). Le idee che fondano il consenso appaiono alla maggioranza come vere e normali. I membri di una società accettano l’ordine egemonico e vivono secondo le sue regole e i suoi codici (cfr. Demirovic 1992, p. 134). Il consenso, che sta alla base dell’ordine egemonico, è conteso e oggetto di continua rinegoziazione. Questo significa che la critica dell’egemonia è parte dell’ordine egemonico. La critica dell’egemonia non può quindi pretendere di collocarsi al di fuori delle condizioni da essa criticate; anch’essa tende all’egemonia e a rappresentare il consenso sociale. È da qui che si muove una mediazione culturale che si considera prassi di critica dell’egemonia. Le istituzioni culturali e la produzione artistica fanno parte dei luoghi centrali di negoziazione dell’ordine egemonico. Attraverso ciò che offrono e le forme in cui lo offrono, ma anche attraverso le loro condizioni di lavoro, le economie, gli spazi d’azione e la modalità della loro visibilità partecipano in permanenza alla produzione e alla conferma, ma per l’appunto potenzialmente anche al contrasto e allo spostamento di norme e valori sociali, di inclusioni e di esclusioni, del potere e del mercato. La mediazione culturale a sua volta non è radicata solo nella produzione culturale, ma anche nel campo della pedagogia, dove pure è prodotta, criticata e trasformata egemonia. La mediazione culturale si trova quindi confrontata in ogni situazione con la scelta di confermare e riprodurre determinati presupposti egemonici o di assumere una distanza critica verso tali presupposti e trasformarli. Quest’ultimo aspetto significa prima di tutto «contraddire se stessi» (Haug F. 2004, p. 4 – 38): individuare le certezze mai messe in discussione del proprio campo di lavoro, analizzare le norme e i valori nascosti nella mediazione culturale stessa. Oltre a ciò, una mediazione artistica critica dell’egemonia non vuole lasciare immutate le istituzioni e le condizioni in cui ha luogo. Una critica senza proposte d’azione sarebbe nella sua autosufficienza in opposizione all’aspirazione della mediazione di creare  situazioni di scambio, in cui tale scambio non va inteso sempre come un fatto armonico, ma anche contrastante e resistente (Sturm 2002).2 La mediazione culturale intesa in questo senso come prassi critica cerca quindi di giungere a un ripensamento e una rivisitazione dei motivi per la mediazione culturale. Contraddire se stessi presuppone un progetto che punta all’affermazione (Haug F. 2004, p.4 – 38).

I seguenti testi per chi ha un po’ di tempo cercano di rintracciare lungo la domanda principale del relativo capitolo il duplice movimento di una mediazione culturale tra critica e ripensamento della pratica. Dapprima sono presentati in una prospettiva di critica dell’egemonia i rapporti di tensione entro cui si muove la mediazione culturale in relazione alla questione trattata nel relativo capitolo. In seguito si procede alla riflessione in merito a quali opportunità di azione e di trasformazione si dischiudono di volta in volta in riferimento a questi rapporti di tensione. Il passo successivo – vale a dire interrogare a loro volta le alternative d’azione che ne risultano in merito alla loro condizione egemonica e le conseguenti pratiche di dominio e contraddizioni – è nei testi solo accennato mediante l’indicazione che per principio le condizioni di tensione esistenti non sono risolvibili, ma che si tratta di operare in esse e di gestirle in modo consapevole e informato.

1 «Questo concetto globale di cultura ha ottenuto […] la sua forma vincolante per il periodo seguente con Johann Gottfried Herder, segnatamente con le sue Idee per la filosofia della storia dell’umanità, pubblicate tra il 1784 e il 1791. Il concetto di cultura in Herder è caratterizzato da tre momenti: la fondazione etnica, l’omogeneizzazione sociale e la delimitazione verso l’esterno.» (Welsch 1995)

2 E in cui coloro che si adoperano per lo sviluppo e la realizzazione di proposte d’azione non devono essere necessariamente le stesse persone che effettuano l’analisi.

Bibliografia e link

Il testo si basa in parte sui seguenti contributi già pubblicati:

Altri riferimenti bibliografici: